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Gli Anni Giovanili e la Formazione di un Visionario
La storia di un uomo che cambia il corso degli eventi non inizia mai nel momento della sua più grande realizzazione, ma nelle silenziose e spesso invisibili correnti della sua giovinezza. Per Jigoro Kano, il fondatore del Judo, queste correnti furono particolarmente tumultuose, modellate da un’epoca di trasformazioni epocali, da una profonda introspezione personale e da una sete di conoscenza che trascendeva i confini tra corpo e mente, tra Oriente e Occidente. Comprendere la sua gioventù significa scoprire la matrice da cui scaturì non solo una nuova arte marziale, ma una filosofia educativa e un ideale di vita che risuonano ancora oggi con straordinaria pertinenza. La sua non fu la storia di un prodigio marziale, ma il percorso di un intelletto brillante intrappolato in un corpo fragile, la cui lotta per superare i propri limiti divenne metafora della lotta di un’intera nazione per trovare la propria identità nel nuovo ordine mondiale.
Il Giappone in cui Jigoro Kano nacque, il 28 ottobre 1860, era un mondo sull’orlo del baratro e della rinascita. Lo Shogunato Tokugawa, che aveva governato per oltre duecentocinquant’anni in un isolamento quasi totale, stava crollando sotto la pressione interna e la minaccia esterna delle “navi nere” occidentali. La Restaurazione Meiji del 1868, avvenuta quando Kano aveva solo otto anni, non fu un semplice cambio di regime, ma un cataclisma culturale. L’imperatore fu riportato al centro del potere, la classe dei samurai fu abolita e il paese si lanciò in una corsa febbrile verso la modernizzazione, adottando il motto “Wakon Yōsai” – Spirito Giapponese, Tecnologia Occidentale. Questa dicotomia fu il respiro stesso dell’epoca e l’aria che il giovane Kano respirò. Da un lato, la venerazione per la tradizione, per i valori confuciani di lealtà, disciplina e dovere; dall’altro, un’insaziabile curiosità per la scienza, la politica e la filosofia che provenivano dall’Europa e dall’America.
La famiglia Kano incarnava perfettamente questa dualità. Suo padre, Kano Jirosaku, non era un signore della guerra o un samurai, ma un uomo colto e pragmatico. Funzionario di alto rango per l’amministrazione navale dello shogunato e abile produttore di sakè, apparteneva a quella classe di burocrati e mercanti che possedeva sia la cultura tradizionale sia l’apertura mentale necessarie per navigare le acque agitate del cambiamento. Con la caduta dello shogunato, la famiglia si trasferì dalla prefettura di Hyōgo a Tokyo, il nuovo cuore pulsante del Giappone. Qui, il padre di Jigoro non solo continuò le sue attività con successo, ma si immerse nel nuovo clima politico e culturale. Egli riponeva nel figlio, il terzo di cinque, speranze immense. Lo voleva studioso, diplomatico, un uomo del nuovo Giappone, capace di servire l’Imperatore con la penna e l’intelletto, non con la spada. L’educazione di Jigoro fu quindi rigorosa e profondamente influenzata dal neoconfucianesimo, che instillò in lui un radicato senso di responsabilità sociale, un’etica del lavoro ferrea e la convinzione che il miglioramento personale fosse un dovere morale finalizzato al bene della comunità. Questo principio, appreso sui testi classici cinesi, sarebbe poi riemerso, trasformato e universalizzato, nel suo concetto di Jita Kyoei (Tutti insieme per progredire).
Tuttavia, c’era una profonda dissonanza tra l’orizzonte luminoso che la sua mente poteva scorgere e i limiti angusti del suo corpo. Jigoro era un bambino di costituzione debole, piccolo di statura, spesso malaticcio. In un’epoca in cui la forza fisica era ancora un valore tangibile e la violenza non era un’astrazione, questa fragilità era una fonte costante di umiliazione e insicurezza. Nelle scuole che frequentava, divenne un bersaglio facile per i compagni più robusti. Il bullismo che subì non fu un episodio passeggero, ma un’esperienza formativa che lasciò una cicatrice profonda. Ogni angheria, ogni spintone, ogni beffa non facevano che alimentare in lui un desiderio ardente, quasi ossessivo, di trovare un modo per diventare forte. Non cercava la vendetta, ma la dignità. Non voleva dominare gli altri, ma padroneggiare se stesso. Questa ricerca, nata da una ferita personale, si intrecciò inconsciamente con la psiche collettiva del Giappone Meiji, che si sentiva piccolo e vulnerabile di fronte alla soverchiante potenza militare ed economica dell’Occidente. La ricerca di forza di Kano divenne, in piccolo, la ricerca di forza del Giappone: una forza che non doveva essere una copia sbiadita di quella altrui, ma qualcosa di autentico, radicato nella propria cultura e ottimizzato da un approccio intelligente e razionale.
La via che Kano scelse per la sua formazione intellettuale fu quella dell’eccellenza. A undici anni fu mandato a Tokyo per studiare e si immerse in un percorso accademico che lo espose alle correnti di pensiero più avanzate del suo tempo. Frequentò scuole private dove imparò l’inglese e il tedesco, lingue indispensabili per accedere direttamente al sapere occidentale. Nel 1874, all’età di quattordici anni, si iscrisse alla Scuola di Lingue Straniere di Tokyo, che in seguito sarebbe confluita nella prestigiosa Università Imperiale di Tokyo. Qui, non si limitò ad assorbire passivamente le nozioni. La sua mente, analitica e sistematica, dissezionava ogni idea. Fu profondamente influenzato dal pensiero di Herbert Spencer, il cui darwinismo sociale predicava la “sopravvivenza del più adatto”. Questa teoria, che in Occidente giustificava il colonialismo e la competizione spietata, in Giappone fu interpretata come un monito: la nazione doveva adattarsi e diventare forte per non essere fagocitata. Kano, tuttavia, non poteva accettare che la “fitness” fosse solo una questione di forza bruta. La sua stessa esperienza fisica glielo negava. Iniziò a postulare che la vera “fitness” risiedesse nell’uso più efficiente dell’energia, un concetto che avrebbe poi cristallizzato nel principio di Seiryoku Zen’yo (Massimo impiego efficiente dell’energia).
Allo stesso tempo, si avvicinò alle filosofie utilitaristiche di John Stuart Mill e Jeremy Bentham, che sostenevano che l’azione morale fosse quella che produceva “il maggior bene per il maggior numero di persone”. Questo approccio razionale ed etico al benessere collettivo si sposava perfettamente con la sua educazione neoconfuciana, fornendogli una cornice moderna e universale per il suo innato senso di responsabilità sociale. Questa sintesi tra il pragmatismo scientifico occidentale e l’etica comunitaria orientale fu il vero crogiolo intellettuale in cui si forgiò la sua visione. Kano non fu né un tradizionalista reazionario né un imitatore acritico dell’Occidente. Fu un innovatore capace di costruire un ponte tra due mondi, prendendo il meglio da entrambi per creare qualcosa di completamente nuovo.
Mentre la sua mente si espandeva, il suo corpo rimaneva una fonte di frustrazione. Il desiderio di irrobustirsi non era diminuito, anzi, era diventato più urgente. Iniziò a esplorare diverse forme di esercizio fisico, dalla ginnastica occidentale al canottaggio, ma nessuna sembrava offrirgli ciò che cercava: non solo forza, ma un metodo, un sistema per gestire il confronto fisico con intelligenza. Fu allora che il suo pensiero si rivolse al jujutsu. Questa scelta, oggi apparentemente ovvia, all’epoca era radicale e controcorrente. Nell’era Meiji, le antiche arti marziali dei samurai (bujutsu) erano viste con disprezzo dalla nuova classe dirigente. Erano considerate reliquie di un passato feudale e violento, pratiche rozze e inadatte a un gentiluomo moderno. I grandi maestri, privati del loro status e dei loro patroni, erano spesso ridotti in povertà, e i loro dojo erano caduti in disuso o si erano trasformati in arene per combattimenti da strada. Per un giovane e brillante studente dell’Università Imperiale, destinato a una carriera di alto livello, interessarsi al jujutsu era considerato eccentrico, se non addirittura disdicevole.
Il padre di Kano si oppose fermamente a questa inclinazione, vedendola come una distrazione pericolosa e inutile. Ma la determinazione di Jigoro era ormai incrollabile. A diciassette anni, iniziò la sua ricerca di un insegnante. Fu un percorso lungo e frustrante. Molti di coloro che si spacciavano per maestri erano ciarlatani, altri si rifiutavano di insegnare a un giovane che non apparteneva a una stirpe di guerrieri. Bussò a innumerevoli porte, ricevendo solo rifiuti o richieste di denaro esorbitanti. Questa odissea mise alla prova la sua tenacia e affinò la sua capacità di giudizio. Imparò a distinguere la vera competenza dalla millanteria, un’abilità che gli sarebbe stata preziosa in seguito. La svolta arrivò grazie a un conoscente di famiglia, Nakai Baisei, un ex membro delle guardie dello Shogun che era stato allievo di una scuola di jujutsu. Sebbene non fosse più un praticante attivo, Nakai comprese la serietà del giovane Kano e accettò di presentarlo a un vero maestro.
Il primo vero contatto di Kano con la pratica del jujutsu fu un’epifania. Finalmente, non si trattava più di teoria, ma di esperienza diretta. Il dolore, la fatica, l’umiliazione di essere proiettato a terra da uomini che non sembravano usare alcuna forza apparente, tutto questo non lo scoraggiò. Al contrario, lo affascinò. La sua mente analitica vide immediatamente che dietro a quei movimenti c’era un principio, una logica nascosta. Capì che il jujutsu non era una questione di chi fosse più forte o più pesante, ma di chi comprendesse meglio le leggi della dinamica, dell’equilibrio e della leva. La sua ricerca di forza fisica si trasformò in una ricerca intellettuale. Il dojo divenne il suo laboratorio, e il suo corpo lo strumento per verificare le ipotesi. Iniziò a prendere appunti meticolosi su ogni tecnica, analizzandone i punti di forza e di debolezza, cercando di estrarne l’essenza biomeccanica. Questo approccio, quasi scientifico, applicato a un’arte tradizionale tramandata oralmente e attraverso l’imitazione, era senza precedenti.
Gli anni giovanili di Jigoro Kano, quindi, non furono semplicemente un preludio alla sua opera, ma ne furono la causa prima e la sostanza. Ogni elemento della sua formazione contribuì a plasmare il visionario che sarebbe diventato. Il contesto storico della Restaurazione Meiji gli fornì la cornice di un mondo in transizione, in cui il nuovo doveva essere costruito sulle rovine del vecchio. La sua educazione neoconfuciana gli diede le fondamenta etiche e il senso del dovere sociale. I suoi studi universitari e l’esposizione al pensiero occidentale gli fornirono gli strumenti critici e scientifici per analizzare e innovare. La sua fragilità fisica e le umiliazioni subite furono il catalizzatore emotivo che accese la sua volontà indomabile. E infine, la sua frustrante ma ostinata ricerca di un maestro di jujutsu affinò la sua determinazione e lo preparò a riconoscere il valore nascosto in un’arte in declino. Quando finalmente, a diciotto anni, iniziò il suo apprendistato sotto la guida di Hachinosuke Fukuda, Jigoro Kano non era più solo un ragazzo gracile in cerca di forza. Era un pensatore maturo, un ricercatore metodico, un innovatore con una visione. Non cercava più solo di imparare un’arte, ma di reinventarla, di elevarla da una semplice tecnica di combattimento (jutsu) a una “Via” (Dō) per il perfezionamento dell’essere umano nella sua totalità. Il seme del Judo era stato piantato, e le radici affondavano profonde nel terreno fertile e complesso della sua giovinezza.
Il Cammino nel Jujutsu: Gli Insegnamenti dei Maestri
Il percorso che trasformò il giovane e studioso Jigoro Kano nel fondatore di una disciplina rivoluzionaria non fu un’illuminazione improvvisa, ma un viaggio metodico, quasi scientifico, nel cuore di un’arte antica e frammentata. Il suo cammino nel jujutsu non fu quello di un adepto che si sottomette passivamente a una tradizione, ma quello di un ricercatore che interroga, analizza e sintetizza, cercando un principio unificante al di là delle singole tecniche. Ogni maestro che incontrò fu una porta su un universo di conoscenze, ogni dojo un laboratorio in cui testare le sue crescenti intuizioni. Per comprendere la nascita del Judo, è indispensabile immergersi in questo apprendistato, seguendo le orme di Kano mentre si addentrava nei meandri delle scuole di jujutsu, estraendone l’oro da un fiume in piena che la modernizzazione stava spingendo verso l’oblio. Il suo non fu un semplice apprendimento, ma una vera e propria indagine critica, condotta con l’acume di un intellettuale e la tenacia di chi ha trovato nella pratica marziale la risposta a una profonda esigenza esistenziale.
Quando Jigoro Kano, a diciassette anni, decise con irrevocabile determinazione di trovare un insegnante, il mondo del jujutsu era un paesaggio crepuscolare. Le grandi scuole (ryu), un tempo fiore all’occhiello della classe samurai, avevano perso il loro prestigio e la loro funzione sociale. L’editto Haitōrei del 1876, che proibiva di portare le spade in pubblico, aveva inferto il colpo di grazia a un’intera cultura, e con essa alle arti marziali che ne erano l’espressione. Molti maestri, privati del loro status e dei loro stipendi, erano costretti a vivere di espedienti, alcuni trasformando la loro arte in uno spettacolo da baraccone, altri rifiutandosi di insegnare a chi non fosse di nobili origini, altri ancora gelosi custodi di segreti che rischiavano di morire con loro. In questo contesto, trovare un insegnante autentico, competente e moralmente integro era un’impresa ardua. Kano si scontrò con questa realtà, affrontando rifiuti, richieste esose e la diffidenza di un mondo che vedeva in lui, uno studente universitario dedito ai libri e alle lingue straniere, un estraneo.
La sua perseveranza fu infine premiata. Attraverso la mediazione di un conoscente, ottenne la sua prima, vera introduzione nel mondo del jujutsu. Questo primo passo lo condusse alla porta di Hachinosuke Fukuda, un maestro della Tenshin Shin’yo-ryu. Questo incontro segnò la fine della sua frustrante ricerca e l’inizio della sua vera formazione.
Hachinosuke Fukuda e la Scuola della Pratica Viva: Il Battesimo del Randori
Il dojo di Hachinosuke Fukuda non era una sala imponente. Era uno spazio modesto, forse angusto, ma per il giovane Kano rappresentò l’ingresso in un nuovo universo. Fukuda non era un aristocratico guerriero; era un uomo del popolo, un abile osteopata (seifukushi) che utilizzava le sue conoscenze di anatomia e manipolazione sia per curare i pazienti sia per insegnare il combattimento. Questa sua duplice natura di guaritore e combattente affascinò Kano, che vi scorse un’eco della sua stessa ricerca di un’arte che potesse fortificare anziché distruggere. La scuola di Fukuda, la Tenshin Shin’yo-ryu, era una delle tradizioni di jujutsu più rispettate, nota per la sua efficacia nel combattimento ravvicinato. La sua specialità risiedeva nelle tecniche di controllo a terra (katame-waza), negli strangolamenti (shime-waza) e nei colpi ai punti vitali (atemi-waza). Era un sistema pragmatico, diretto, focalizzato sulla sottomissione dell’avversario.
Ciò che distingueva profondamente l’insegnamento di Fukuda, e che si rivelò fondamentale per lo sviluppo di Kano, era la sua enfasi predominante sul randori. Il termine, che si può tradurre come “pratica libera” o “presa del caos”, indicava una forma di sparring in cui due praticanti si confrontavano senza un copione prestabilito, cercando di applicare liberamente le tecniche apprese. Questo approccio era in netto contrasto con quello di molte altre scuole tradizionali, che privilegiavano quasi esclusivamente la pratica dei kata, sequenze formali e preordinate di movimenti eseguite con un partner collaborativo. Per Fukuda, il kata era importante, ma era nel crogiolo imprevedibile del randori che un praticante poteva veramente testare la propria abilità, sviluppare il tempismo, il senso della distanza e la capacità di adattamento.
Per Kano, la cui mente era abituata all’analisi logica e alla sperimentazione, il randori fu una rivelazione. Il dojo di Fukuda divenne il suo laboratorio personale. Ogni caduta, ogni leva articolare subita, ogni tentativo fallito di proiettare un compagno più esperto non era una sconfitta, ma una raccolta di dati. La sua mente eccezionale gli permetteva di analizzare in tempo reale ciò che accadeva al suo corpo. Perché quella tecnica aveva funzionato? Qual era il punto esatto di squilibrio? Come avrebbe potuto usare la forza del suo avversario contro di lui? Iniziò a tenere diari dettagliati, annotando osservazioni, schizzando diagrammi, cercando di distillare i principi biomeccanici che si celavano dietro l’apparente caos del combattimento libero. Era un approccio rivoluzionario: stava applicando il metodo scientifico a un’arte che per secoli era stata tramandata attraverso l’intuizione e l’imitazione.
Sotto la guida di Fukuda, Kano non solo irrobustì il suo corpo, ma iniziò a costruire le fondamenta del suo sistema. Imparò a sue spese che la forza bruta era un limite, non una risorsa. Essendo più piccolo e leggero di molti dei suoi compagni, fu costretto a trovare soluzioni intelligenti, a sfruttare la leva, a cedere alla forza per poi reindirizzarla. Il rapporto con il maestro divenne profondo. Fukuda, da parte sua, riconobbe di trovarsi di fronte a un allievo fuori dal comune. Non era solo la sua dedizione a colpirlo, ma la sua insaziabile curiosità intellettuale, le sue domande acute, la sua capacità di cogliere l’essenza di una tecnica al di là della sua forma esteriore.
Questa fase cruciale della sua formazione si interruppe bruscamente e tragicamente. Nel 1879, Hachinosuke Fukuda morì improvvisamente. Per Kano fu un colpo durissimo. Ma Fukuda, quasi presagendo il destino eccezionale del suo allievo, gli aveva lasciato un’eredità inestimabile. In punto di morte, o secondo altre versioni poco prima, consegnò a Kano i densho, i rotoli che contenevano i segreti e la genealogia della Tenshin Shin’yo-ryu. Era un gesto di fiducia immensa, un’investitura formale. A soli diciannove anni, Jigoro Kano non era più solo un promettente studente; era diventato l’erede di una tradizione, il custode di un sapere antico. Questo evento lo caricò di una responsabilità enorme, ma allo stesso tempo lo rese consapevole di aver completato il primo, fondamentale capitolo del suo apprendistato. Aveva imparato il valore della pratica viva, del confronto reale, della sperimentazione incessante.
Masatomo Iso e la Grammatica del Gesto: La Profondità del Kata
La morte di Fukuda lasciò un vuoto, ma non arrestò la ricerca di Kano. In possesso dei densho della Tenshin Shin’yo-ryu, si sentiva in dovere di approfondire ulteriormente quella tradizione. La sua ricerca lo condusse da un altro maestro dello stesso ryu, Masatomo Iso. Se l’incontro con Fukuda era stato un battesimo del fuoco nella pratica libera, quello con Iso fu un’immersione profonda nelle fondamenta teoriche e formali dell’arte. Masatomo Iso era, per molti versi, l’opposto di Fukuda. Il suo dojo era rinomato non tanto per la durezza del randori, quanto per la perfezione quasi artistica con cui venivano eseguiti i kata. Iso era un purista, un esteta del gesto marziale. Credeva che ogni movimento del kata contenesse l’essenza della scuola, e che solo attraverso la ripetizione meticolosa e la comprensione profonda di queste forme si potesse raggiungere la vera maestria.
Per Kano, questo nuovo ambiente di apprendimento fu inizialmente una sfida. Abituato alla fluidità e all’imprevedibilità del randori, dovette adattarsi alla disciplina rigorosa e alla precisione millimetrica richieste da Iso. Ma la sua mente analitica colse subito il valore inestimabile di questo approccio. Se il randori era la conversazione, il kata era la grammatica. Senza una solida conoscenza delle regole grammaticali, la conversazione sarebbe rimasta superficiale, confusa, basata sull’istinto ma priva di profondità e struttura. Sotto la guida di Iso, Kano iniziò a sezionare i kata della Tenshin Shin’yo-ryu. Ogni gesto, ogni spostamento, ogni sguardo veniva analizzato per il suo significato marziale (riai). Scoprì che i kata non erano danze rituali, ma un’enciclopedia di principi. Insegnavano la gestione dell’equilibrio, il controllo del centro di gravità, l’applicazione corretta della forza, il flusso di energia. Erano una mappa dettagliata delle possibilità del corpo umano in combattimento.
Questa fase fu cruciale perché permise a Kano di operare una sintesi fondamentale. Iniziò a vedere kata e randori non più come due metodologie separate o addirittura opposte, ma come due aspetti complementari e inseparabili della stessa realtà. Il kata forniva i principi e il vocabolario tecnico nella loro forma più pura; il randori era il laboratorio in cui questi principi venivano testati, adattati e applicati in un contesto dinamico e non cooperativo. L’uno dava significato all’altro. Un randori senza la comprensione dei principi del kata era solo una rissa confusa. Un kata senza la verifica del randori era solo un guscio vuoto, un’estetica priva di efficacia. Questa intuizione fu uno dei pilastri su cui avrebbe costruito l’intero edificio pedagogico del Judo.
La sua abilità e la sua comprensione crebbero a un ritmo prodigioso. Masatomo Iso, come già Fukuda prima di lui, fu colpito dalla genialità di questo allievo. Non solo Kano imparava le forme più velocemente e con maggiore profondità di chiunque altro, ma era in grado di spiegarne i principi con una chiarezza e una logica che a volte sorprendevano lo stesso maestro. Il suo status nel dojo cambiò rapidamente. Da semplice allievo divenne ben presto un assistente istruttore (shihan-dai). A soli ventun anni, Jigoro Kano era già un insegnante rispettato in una delle più importanti scuole di jujutsu della capitale. Ma il suo cammino non era ancora concluso. Sentiva che, nonostante la sua competenza nel controllo a terra e nelle leve articolari, c’era un’area in cui la Tenshin Shin’yo-ryu non eccelleva: le tecniche di proiezione (nage-waza). La sua insaziabile fame di conoscenza lo spinse a cercare un nuovo maestro, un esperto in quest’ultimo, fondamentale aspetto del combattimento a mani nude.
Tsunetoshi Iikubo e la Via della Cedevolezza: La Rivelazione del Nage-Waza
La ricerca di un maestro esperto nelle tecniche di proiezione condusse Kano alla porta di Tsunetoshi Iikubo, un anziano maestro della Kito-ryu. Questo incontro rappresentò il capitolo finale e forse più importante del suo apprendistato. Se la Tenshin Shin’yo-ryu gli aveva dato le fondamenta pratiche e formali, la Kito-ryu gli fornì la chiave di volta filosofica e il principio dinamico che avrebbe unificato tutto il suo sapere. La Kito-ryu, il cui nome significa “Scuola della Nascita e della Caduta”, era una tradizione antica e profondamente rispettata, con radici che affondavano nel pensiero Zen e Taoista. Il suo approccio al combattimento era meno diretto e più sottile di quello della Tenshin Shin’yo-ryu. Il suo principio cardine non era l’imposizione della forza, ma la sua manipolazione. Si basava sul concetto di ju, la cedevolezza, la flessibilità, l’idea di non opporsi alla forza dell’avversario ma di accoglierla, di fondersi con essa per poi reindirizzarla a proprio vantaggio. Era l’arte di vincere cedendo, il principio del salice che si piega sotto il peso della neve per poi scrollarsela di dosso, rimanendo intatto, mentre la quercia rigida si spezza.
Per Kano, che aveva basato tutta la sua ricerca sul superamento dei suoi limiti fisici, questo principio fu una folgorazione. Era la formulazione teorica di ciò che aveva cercato istintivamente fin dall’inizio. Sotto la guida di Iikubo, si immerse nello studio del nage-waza. Le proiezioni della Kito-ryu erano spettacolari, ma la loro efficacia non derivava dalla potenza muscolare. Si basavano su un concetto fondamentale e rivoluzionario: il kuzushi, lo squilibrio. Iikubo insegnò a Kano a “sentire” il movimento dell’avversario, a percepirne le intenzioni, a individuare l’istante esatto in cui il suo equilibrio era precario. Il kuzushi poteva essere creato con una spinta, una trazione, uno spostamento, ma l’obiettivo era sempre lo stesso: rompere la stabilità dell’avversario prima ancora di tentare la proiezione. Una volta ottenuto lo squilibrio, la tecnica di proiezione diventava una conseguenza quasi naturale, che richiedeva uno sforzo minimo.
Il dojo di Iikubo divenne il teatro dell’ultima, grande trasformazione di Kano. Le sessioni di randori con il vecchio maestro erano lezioni magistrali. Iikubo, nonostante l’età, proiettava il giovane e vigoroso Kano con apparente facilità, senza mai contrarre un muscolo, muovendosi con una fluidità che sembrava quasi magica. Kano, con la sua solita dedizione, studiò ogni singolo dettaglio. Si concentrò sul lavoro dei piedi (ashi-sabaki), sul movimento del corpo (tai-sabaki), e soprattutto sulla fusione della sua energia (ki) con quella del suo partner. La leggenda narra di un momento specifico, un’epifania avvenuta durante una di queste intense sessioni di pratica. Dopo innumerevoli tentativi falliti, Kano riuscì finalmente a proiettare il suo maestro. Non lo fece usando una tecnica standard della Kito-ryu, ma applicandone i principi a una mossa innovativa, forse un uki-goshi (proiezione d’anca fluttuante) o un kata-guruma (ruota sulla spalla), eseguita con un tempismo e una comprensione dello squilibrio perfetti.
In quell’istante, si narra che Iikubo si sia fermato e abbia detto: “Da oggi in poi, sei tu che insegnerai a me”. L’aneddoto, probabilmente abbellito dal tempo, coglie una verità profonda. Quello fu il momento in cui Kano smise di essere un discepolo e divenne un creatore. Aveva interiorizzato i principi dei suoi maestri a un livello tale da poterli trascendere. Aveva unito la pratica viva di Fukuda, la precisione formale di Iso e i principi di cedevolezza e squilibrio di Iikubo in una sintesi personale e superiore. Aveva trovato la sua “Via”. Riconoscendo l’eccezionalità del suo allievo, Tsunetoshi Iikubo iniziò a consegnargli i densho della Kito-ryu, completando così la sua formazione e affidandogli l’eredità di un’altra, fondamentale tradizione marziale.
Alla fine del suo cammino nel jujutsu, a soli ventidue anni, Jigoro Kano si trovava in una posizione unica. Era un maestro riconosciuto di due delle più importanti scuole di jujutsu del Giappone. Possedeva un arsenale tecnico vastissimo, che andava dalle leve articolari agli strangolamenti, dai colpi alle proiezioni. Ma soprattutto, possedeva una visione. Aveva compreso che il jujutsu, nella sua forma tradizionale, era frammentato, spesso eccessivamente pericoloso per una pratica sicura, e privo di una cornice filosofica unificante che potesse renderlo uno strumento educativo per la società moderna. Il suo percorso attraverso i dojo di Fukuda, Iso e Iikubo non era stato un semplice accumulo di tecniche. Era stato un processo di distillazione. Aveva scartato ciò che era inefficace o troppo pericoloso, e aveva riorganizzato ciò che era valido secondo un principio supremo: l’uso più efficiente dell’energia fisica e mentale per il mutuo benessere e progresso. Il suo apprendistato era concluso. Era giunto il momento di dare un nome e una casa a questa nuova visione. Il tempo del discepolo era finito; stava per iniziare il tempo del fondatore.
La Nascita del Judo e la Fondazione del Kodokan
Al volgere del 1881, Jigoro Kano era una figura singolare nel panorama marziale di Tokyo. A soli ventidue anni, non era più semplicemente un allievo, ma un maestro a pieno titolo, depositario dei segreti e delle tradizioni di due delle più influenti scuole di jujutsu del suo tempo. Nelle sue mani teneva i densho, i rotoli della conoscenza, della Tenshin Shin’yo-ryu e della Kito-ryu. La sua mente, forgiata tanto sui classici confuciani e sulla filosofia occidentale quanto sul tatami, aveva assorbito e dissezionato un vastissimo repertorio di tecniche di controllo, strangolamento, leva articolare e proiezione. Eppure, Kano era profondamente insoddisfatto. Non sentiva di essere il punto d’arrivo di due tradizioni, ma il punto di partenza di qualcosa di interamente nuovo. La conoscenza che aveva accumulato non era un traguardo, ma la materia prima per una creazione che avrebbe cambiato per sempre il significato stesso di “arte marziale”. La sua visione trascendeva la mera efficacia in combattimento; ambiva a creare un sistema, una “Via” che potesse servire allo sviluppo fisico, intellettuale e morale dell’individuo e, di conseguenza, al progresso dell’intera nazione giapponese, che si stava affacciando con trepidazione e ambizione alla modernità.
Il primo passo, e forse il più radicale, di questa creazione fu di natura concettuale. Kano prese una decisione che segnò una rottura filosofica netta con il passato. Decise di abbandonare il suffisso -jutsu (術), che significa “arte”, “tecnica” o “metodo”, per abbracciare il suffisso -dō (道), che significa “Via”, “percorso”, “sentiero”. Questa non fu una semplice scelta lessicale, ma una dichiarazione d’intenti. Il termine “jujutsu” evocava un insieme di abilità pratiche finalizzate a uno scopo specifico e limitato: la sopravvivenza o la vittoria in un combattimento. Era uno strumento. Il termine “Judo”, la “Via della Cedevolezza”, che egli coniò, indicava invece un percorso di vita, un processo di apprendimento e auto-perfezionamento che durava tutta l’esistenza. Le tecniche, in questa nuova visione, cessavano di essere il fine ultimo e diventavano il mezzo, il veicolo attraverso cui l’individuo poteva apprendere e incarnare principi più elevati. Era la transizione da un’arte di guerra a una pedagogia fisica e morale. Kano voleva offrire ai suoi contemporanei non solo un modo per difendersi, ma un metodo per costruire il proprio carattere, per imparare la disciplina, il rispetto, il coraggio e, soprattutto, per comprendere il principio fondamentale che aveva distillato dai suoi anni di pratica: l’uso più efficiente dell’energia per il bene comune.
Con questa visione chiara e potente nella mente, il passo successivo fu darle una casa. Nel febbraio del 1882, Jigoro Kano compì l’atto formale che segna la nascita del Judo. Raccolse un piccolo gruppo di suoi allievi personali, i primi che avevano iniziato a studiare il suo metodo ancora in fase di elaborazione, e fondò il suo dojo. Il luogo scelto per questa impresa epocale era di un’umiltà quasi commovente, un dettaglio che la storia ha reso emblematico. Non si trattava di un’imponente sala d’armi, ma di una piccola stanza in affitto al secondo piano di un tempio buddista, l’Eishō-ji (永昌寺), situato nel quartiere Shitaya di Tokyo. Lo spazio a sua disposizione era incredibilmente modesto: una sala di soli dodici tatami, l’equivalente di circa venti metri quadrati. In questo ambiente ristretto, quasi claustrofobico, Kano iniziò a insegnare la sua nuova disciplina a un nucleo iniziale di soli nove discepoli. Tra questi primi pionieri c’erano figure che sarebbero diventate leggendarie, come Tsunejiro Tomita, il primo allievo iscritto nei registri, e il formidabile Shiro Saigo, la cui abilità quasi sovrannaturale avrebbe in seguito portato il nome del nuovo dojo alla gloria.
Anche il nome scelto per questo luogo fu una precisa dichiarazione programmatica: Kodokan (講道館). Ogni ideogramma era carico di significato. Kō (講) significa “spiegare”, “insegnare”, “studiare” o “diffondere”. Dō (道) è la “Via” stessa, il cuore della sua filosofia. Kan (館) significa “edificio”, “sala” o “istituto”. Il Kodokan non era quindi una semplice “palestra di Judo”, ma “l’Istituto per lo Studio e la Diffusione della Via”. Il nome stesso proclamava la sua natura educativa e la sua ambizione universale. Fin dal primo giorno, il Kodokan fu concepito non come un club privato per combattenti, ma come una scuola aperta a tutti coloro che desideravano intraprendere un percorso di miglioramento personale attraverso la pratica marziale.
Una volta fondato il dojo, il compito più imponente per Kano fu quello di sistematizzare e codificare il curriculum del Judo. Questo non fu un semplice lavoro di “copia e incolla” dalle scuole che aveva studiato. Al contrario, fu un processo di rigorosa analisi critica, di eliminazione, modifica e innovazione. Applicando la sua mente scientifica e razionale, Kano esaminò ogni singola tecnica del repertorio del jujutsu tradizionale alla luce del suo principio cardine: Seiryoku Zen’yo, il massimo impiego efficiente dell’energia.
Il primo, drastico intervento fu l’eliminazione, dalla pratica del randori (la pratica libera), di tutte quelle tecniche che considerava eccessivamente pericolose o controproducenti per un allenamento sicuro e continuativo. Calci, pugni, colpi ai punti vitali (atemi-waza), così come le leve articolari più rischiose (specialmente quelle alle dita, alle caviglie o alla spina dorsale), furono bandite dalla pratica libera. Kano non le riteneva inefficaci, anzi, ne riconosceva la terribile potenza. Ma comprese che la loro inclusione nel randori avrebbe impedito ai praticanti di allenarsi con piena intensità e senza riserve mentali, per la paura costante di ferire o essere feriti gravemente. Questa decisione rese il Judo molto più sicuro e, di conseguenza, accessibile a un pubblico enormemente più vasto: studenti, impiegati, persone comuni che non potevano permettersi di presentarsi al lavoro con un braccio rotto o un occhio nero. Queste tecniche pericolose non furono completamente abbandonate, ma relegate allo studio formale di alcuni kata avanzati, praticati come promemoria delle origini marziali del Judo.
Il secondo intervento fu la modifica e la razionalizzazione delle tecniche rimanenti, in particolare quelle di proiezione (nage-waza). Kano non si limitò a insegnare le proiezioni che aveva appreso. Le scompose, le analizzò biomeccanicamente e le riorganizzò in un sistema pedagogico coerente. Formalizzò la sua intuizione più brillante in una struttura triadica che divenne la spina dorsale dell’insegnamento del Judo: Kuzushi, Tsukuri e Kake.
Kuzushi (崩し): Lo squilibrio. Kano elevò questo concetto, già presente nella Kito-ryu, a principio fondamentale e imprescindibile. Insegnò che nessuna proiezione doveva essere tentata prima di aver rotto l’equilibrio dell’avversario. Il kuzushi era il primo passo, la chiave che apriva la porta della tecnica.
Tsukuri (作り): La preparazione, o il posizionamento. Una volta ottenuto lo squilibrio, il praticante doveva posizionare il proprio corpo nel modo più efficiente possibile per eseguire la proiezione. Era la fase di adattamento e di ingresso, in cui ci si “costruiva” nella posizione ideale.
Kake (掛け): L’esecuzione, l’applicazione finale della tecnica. Era il momento culminante, l’atto della proiezione stessa, che, se kuzushi e tsukuri erano stati eseguiti correttamente, richiedeva uno sforzo minimo e diventava una conseguenza quasi inevitabile.
Questo approccio sistematico trasformò l’apprendimento del Judo da un processo intuitivo e spesso caotico a un percorso logico e progressivo, rendendolo infinitamente più facile da insegnare e da imparare.
Nei primi anni, tuttavia, il Kodokan faticò non poco. Il mondo delle arti marziali tradizionali guardava con sufficienza e disprezzo a questo nuovo “Judo per studenti” creato da un giovane intellettuale che, ai loro occhi, aveva annacquato la dura realtà del combattimento. Le sfide e le provocazioni da parte di altre scuole di jujutsu erano all’ordine del giorno. I primi allievi del Kodokan dovettero difendere l’onore della loro scuola in numerosi duelli non ufficiali (dojo-yaburi), spesso contro avversari più grandi, più pesanti e più esperti. Questi primi scontri, sebbene durissimi, iniziarono a forgiare la reputazione del Kodokan. Gli allievi di Kano, grazie all’enfasi sull’allenamento fisico e sul randori quotidiano, e grazie alla loro superiore comprensione dei principi di squilibrio, iniziarono a vincere con sorprendente regolarità.
La consacrazione definitiva, l’evento che catapultò il Kodokan dalla marginalità alla ribalta nazionale, avvenne a metà degli anni ’80 del XIX secolo. La Polizia Metropolitana di Tokyo, desiderosa di unificare e standardizzare l’addestramento al combattimento corpo a corpo per i suoi agenti, decise di indire un torneo per determinare quale scuola di arti marziali fosse la più efficace. Questo evento, passato alla storia come il Torneo di Arti Marziali della Polizia Metropolitana, divenne il campo di battaglia ideologico su cui il nuovo Judo di Kano si sarebbe confrontato con le più antiche e rispettate tradizioni del jujutsu.
Il principale avversario del Kodokan era la rinomata scuola Totsuka-ha Yoshin-ryu, guidata dal celebre maestro Hidemi Totsuka. Questa scuola era famosa per la sua potenza e la sua efficacia, e i suoi rappresentanti erano combattenti formidabili. La sfida fu organizzata come una serie di incontri tra i migliori esponenti delle due scuole. L’esito fu un trionfo schiacciante e inequivocabile per il Kodokan. Su quindici incontri disputati, i judoka ne vinsero tredici e ne pareggiarono due, senza subire neanche una sconfitta. Fu in questo torneo che brillarono le stelle dei primi grandi campioni del Kodokan. La figura più celebrata fu quella di Shiro Saigo, un uomo di piccola statura ma di un’abilità prodigiosa, che divenne l’eroe della giornata sconfiggendo avversari molto più imponenti con la sua tecnica特技, lo yama-arashi (“tempesta sulla montagna”), una proiezione così spettacolare da entrare nella leggenda.
La vittoria al torneo della polizia fu molto più di un successo sportivo. Fu una validazione pubblica e ufficiale della superiorità del metodo di Kano. Dimostrò in modo incontrovertibile che un approccio scientifico, basato sui principi di efficienza, squilibrio e pratica libera e intensa, era superiore a un sistema basato sulla forza bruta o su un accumulo di tecniche non integrate da un principio unificante. Da quel momento, il destino del Judo e del Kodokan cambiò radicalmente. Il Judo fu formalmente adottato come arte marziale ufficiale della Polizia di Tokyo e, poco dopo, iniziò a essere introdotto nell’Accademia Navale, nelle università e nel sistema scolastico nazionale, realizzando il sogno più profondo di Kano di farne uno strumento di educazione per la gioventù giapponese.
L’umile dojo di dodici tatami al tempio di Eishō-ji divenne ben presto irrimediabilmente piccolo per accogliere il fiume di nuovi allievi che chiedevano di essere ammessi. Il Kodokan fu costretto a trasferirsi più volte in sedi sempre più grandi, un’espansione fisica che rispecchiava la sua crescente influenza. La fondazione del Kodokan e la nascita del Judo non furono quindi solo la creazione di una nuova arte marziale, ma l’inizio di un movimento culturale. In una modesta stanza di un tempio, Jigoro Kano non aveva semplicemente aperto una palestra; aveva acceso una fiaccola il cui bagliore avrebbe presto illuminato non solo il Giappone, ma il mondo intero.
La Filosofia del Judo: Seiryoku Zen'yo e Jita Kyoei
Per cogliere l’essenza più profonda del Judo, è necessario spingere lo sguardo oltre la spettacolarità delle proiezioni e la complessità delle tecniche di controllo. Bisogna attraversare la superficie della pratica fisica per giungere al suo nucleo pulsante, al cuore filosofico che lo eleva da semplice sistema di combattimento a un’autentica “Via” (Dō) di perfezionamento umano. Questo nucleo è costituito da due principi inscindibili, due pilastri concettuali che sorreggono l’intero edificio costruito da Jigoro Kano: Seiryoku Zen’yo (精力善用) e Jita Kyoei (自他共栄). Essi non furono un’aggiunta posteriore, un abbellimento intellettuale a un’arte già formata, ma la causa prima e il fine ultimo della sua creazione. Comprendere questi due concetti non significa semplicemente imparare due motti, ma decifrare il codice genetico del Judo, afferrare la visione grandiosa di un uomo che intendeva offrire al mondo non solo un’arte marziale superiore, ma un modello per vivere una vita migliore e costruire una società più giusta. L’intera pratica sul tatami, ogni caduta, ogni sforzo, ogni momento di intuizione, fu concepito da Kano come un laboratorio esperienziale in cui il praticante potesse incarnare, attraverso il corpo, queste due verità fondamentali, per poi trasfonderle in ogni aspetto della propria esistenza.
Seiryoku Zen’yo – Il Principio del Massimo Impiego Efficiente dell’Energia
Se si dovesse individuare il motore primo, il principio dinamico che ha dato forma a ogni singola tecnica e strategia del Judo, questo sarebbe senza dubbio Seiryoku Zen’yo. La traduzione comune, “massimo impiego efficiente dell’energia”, pur essendo corretta, rischia di non catturare appieno la vastità del suo significato. Per Kano, non si trattava di una semplice regola di economia motoria, ma di una legge universale applicabile a ogni azione umana, fisica, mentale e spirituale. Era la chiave non solo per prevalere in un confronto fisico, ma per raggiungere l’eccellenza in qualsiasi campo della vita. Seiryoku Zen’yo è l’arte di ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio di risorse, la scienza di agire con intelligenza anziché con la sola forza bruta, la filosofia di una vita vissuta con proposito e senza sprechi.
Per una comprensione più profonda, è utile scomporre il termine stesso. La prima parte, Seiryoku (精力), è composta da due ideogrammi. Sei (精) si riferisce all’essenza, alla purezza, allo spirito; è l’energia vitale, la quintessenza. Ryoku (力) è la forza, la potenza, la capacità. Insieme, Seiryoku non indica la mera forza muscolare, ma la totalità dell’energia di un individuo: la sua vitalità fisica, la sua concentrazione mentale, la sua forza di volontà, la sua energia spirituale. È il potenziale completo dell’essere umano. La seconda parte, Zen’yo (善用), è anch’essa composta da due ideogrammi. Zen (善) significa “bene”, “buono”, “virtuoso”. Yō (用) significa “uso”, “applicazione”, “utilizzo”. Zen’yo, quindi, non è solo un “buon uso” in termini di efficacia, ma un uso “virtuoso”, corretto, orientato a un fine costruttivo. L’espressione completa, Seiryoku Zen’yo, va quindi intesa come “l’applicazione migliore e più virtuosa della totalità della propria energia”.
Le radici di questo principio affondano direttamente nell’esperienza biografica e intellettuale di Kano. La sua costituzione fisica minuta e la sua lotta giovanile contro il bullismo lo costrinsero, per necessità, a cercare soluzioni che non dipendessero dalla stazza o dalla potenza. Fu questa ricerca personale a instradarlo verso l’idea che l’intelligenza potesse e dovesse prevalere sulla forza. Questo seme, piantato dall’esperienza, fu poi annaffiato e fatto germogliare dalla sua straordinaria formazione intellettuale. I suoi studi di scienze occidentali, in un’epoca in cui il Giappone si apriva con fervore al sapere positivista, lo esposero ai principi della fisica e della biomeccanica. Iniziò a vedere il corpo umano non solo come un insieme di muscoli, ma come un sistema di leve, fulcri e centri di gravità, governato da leggi matematiche. L’applicazione di una tecnica di proiezione, in quest’ottica, diventava un problema di fisica da risolvere nel modo più elegante ed economico possibile. Parallelamente, il suo incontro con le filosofie utilitaristiche e pragmatiste dell’Occidente rafforzò in lui la convinzione che il valore di un’azione risiedesse nella sua capacità di produrre risultati concreti e benefici. L’efficienza non era solo una questione di stile, ma un imperativo morale e pratico. Seiryoku Zen’yo fu la sintesi geniale di queste diverse influenze: una risposta pratica a un problema personale, validata dalla scienza occidentale e applicata con il rigore di un filosofo.
Sul tatami, Seiryoku Zen’yo si manifesta in ogni istante della pratica e costituisce l’essenza della superiorità tecnica del Judo. Non è un concetto astratto, ma una realtà tangibile che il judoka impara a sentire nel proprio corpo e in quello del partner. La sua applicazione più evidente è nella famosa triade pedagogica Kuzushi-Tsukuri-Kake. Questa sequenza non è solo un modo per insegnare una proiezione, ma è la rappresentazione perfetta del principio di efficienza in azione. Il Kuzushi, lo squilibrio, è l’atto di intelligenza per eccellenza. Invece di opporre la propria forza alla stabilità dell’avversario in uno scontro di pura potenza, il judoka cerca, con un movimento minimo e preciso — una trazione, una spinta, uno spostamento laterale —, di rompere l’equilibrio del partner. Questo gesto, spesso quasi impercettibile, è l’applicazione di una forza minima nel punto e nel momento giusto per ottenere il massimo effetto. È l’equivalente marziale del trovare il punto debole di una struttura per farla crollare con uno sforzo irrisorio. Senza kuzushi, qualsiasi tentativo di proiezione diventa una faticosa e inefficiente battaglia muscolare. Con un kuzushi efficace, l’avversario è già “sconfitto” prima ancora che la tecnica vera e propria venga applicata.
Il Tsukuri, la preparazione, è la fase successiva e logica. Una volta creato lo squilibrio, il judoka deve posizionare il proprio corpo nello spazio in modo ottimale per sfruttare quella vulnerabilità. È un’azione di adattamento, un “entrare” nella tecnica con fluidità e precisione. Anche qui, l’economia del movimento è sovrana. Non ci sono gesti superflui. Ogni passo, ogni rotazione dell’anca, ogni presa è finalizzata a raggiungere la posizione di massima leva e minimo sforzo. Infine, il Kake, l’esecuzione, è la fase finale. Se kuzushi e tsukuri sono stati eseguiti correttamente, il kake non è uno strappo violento, ma un’azione fluida, quasi una conseguenza naturale del processo. Il corpo dell’avversario viene proiettato non dalla forza bruta di chi attacca, ma dalla somma del suo stesso squilibrio e dell’applicazione scientifica di una leva. È in questo momento che un judoka di sessanta chili può proiettare un avversario di cento chili, non compiendo un miracolo, ma semplicemente applicando correttamente i principi della fisica, ovvero incarnando Seiryoku Zen’yo.
Un altro aspetto fondamentale di questo principio sul tatami è il concetto di Ju (柔), la cedevolezza, che dà il nome stesso al Judo. “Cedere” non è un atto di passività o di debolezza, ma una strategia sofisticata e attiva. È l’arte di non opporre resistenza diretta a una forza soverchiante. Se il mio avversario mi spinge con violenza, invece di spingere a mia volta consumando inutilmente le mie energie, io cedo, mi sposto, lo lascio entrare nel vuoto che ho creato e uso la sua stessa spinta per squilibrarlo e proiettarlo. Se mi tira, non resisto rigidamente, ma lo seguo, accentuando la sua trazione fino a fargli perdere l’equilibrio in avanti. È un principio controintuitivo ma profondamente efficace, l’essenza stessa dell’intelligenza marziale. Si smette di pensare in termini di “io contro di lui” e si inizia a pensare in termini di “io con lui”, manipolando le forze in gioco a proprio vantaggio.
Questa efficienza non è solo fisica, ma anche mentale. Seiryoku Zen’yo implica la capacità di mantenere la calma (heijoshin – mente immobile) sotto pressione, di osservare le azioni dell’avversario senza reagire d’impulso, di conservare la propria energia emotiva per i momenti decisivi. La rabbia, la paura, la frustrazione sono enormi sprechi di Seiryoku. Consumano la lucidità mentale e portano a compiere azioni rigide, prevedibili e inefficienti. Il judoka impara a canalizzare la propria aggressività e la propria volontà di vincere non in una furia cieca, ma in una concentrazione calma e focalizzata.
Tuttavia, l’ambizione di Kano andava ben oltre il perimetro del dojo. Egli era fermamente convinto che i principi appresi con tanta fatica sul tatami fossero troppo preziosi per essere confinati a un’unica area dell’esistenza. Il dojo era il laboratorio, la vita era il campo di applicazione. Seiryoku Zen’yo, traslato nella quotidianità, diventa una potente filosofia di vita. Significa affrontare ogni compito e ogni sfida cercando sempre la soluzione più intelligente, razionale ed economica. Nella gestione del tempo, ad esempio, significa pianificare le proprie giornate, stabilire delle priorità, evitare la procrastinazione e dedicare le proprie energie alle attività che portano i risultati più significativi, invece di disperderle in mille rivoli improduttivi. Nello studio o nel lavoro, significa adottare un metodo, concentrarsi sul compito presente, cercare di comprendere i principi fondamentali di una materia piuttosto che imparare a memoria nozioni sconnesse. È l’invito a “lavorare in modo più intelligente, non più duramente”.
Nelle relazioni interpersonali, applicare Seiryoku Zen’yo significa imparare a gestire i conflitti in modo costruttivo. Significa scegliere quali battaglie combattere e quali evitare, non per codardia, ma per un saggio calcolo energetico. Significa comunicare in modo chiaro e diretto per evitare malintesi che consumano enormi quantità di energia emotiva. Significa, a volte, “cedere” su un punto di poco conto per mantenere l’armonia in una relazione importante, applicando il principio di Ju a livello sociale. A un livello più profondo, Seiryoku Zen’yo è un invito a una vita di continuo auto-miglioramento. Significa dirigere la propria energia vitale verso obiettivi costruttivi: l’apprendimento di una nuova abilità, la creazione artistica, il servizio alla comunità, la cura della propria salute fisica e mentale. È un antidoto alla passività, all’inerzia e alla dispersione che caratterizzano tante esistenze. È la chiamata a prendere in mano il proprio potenziale e a utilizzarlo nel modo migliore possibile, per realizzare la versione più completa e capace di sé stessi.
Jita Kyoei – Il Principio dell’Amicizia e della Mutua Prosperità
Se Seiryoku Zen’yo rappresenta il motore del Judo, il “come” raggiungere l’efficienza, Jita Kyoei ne rappresenta la bussola morale, il “perché” e il “verso dove” dirigere quell’efficienza. Senza questo secondo principio, il primo rischierebbe di diventare uno strumento amorale, un’efficienza fredda e calcolatrice che potrebbe essere usata anche per fini egoistici o distruttivi. Jita Kyoei è il correttivo etico che dà un’anima al Judo, trasformandolo da una scienza del combattimento a una pratica di umanesimo. Il suo significato, “amicizia e mutua prosperità” o “tutti insieme per progredire”, rivela lo scopo ultimo della visione di Kano: il miglioramento dell’individuo non è un fine in sé, ma è pienamente realizzato solo quando contribuisce al benessere della collettività. È l’affermazione radicale che nessuno può raggiungere la vera felicità e la piena realizzazione in isolamento, ma solo attraverso la cooperazione, l’aiuto reciproco e il rispetto per gli altri.
Anche in questo caso, l’analisi etimologica ci aiuta a cogliere la profondità del concetto. La prima parte, Jita (自他), è la combinazione di Ji (自), “sé stesso”, e Ta (他), “gli altri”. Rappresenta quindi la relazione fondamentale tra l’io e il mondo, l’individuo e la comunità. La seconda parte, Kyoei (共栄), unisce Kyō (共), “insieme”, “in comune”, “condiviso”, e Ei (栄), “prosperità”, “splendore”, “fioritura”. Jita Kyoei è quindi, letteralmente, “la prosperità condivisa tra sé stessi e gli altri”. Non è un semplice compromesso o un atto di carità, ma la profonda convinzione che la propria fioritura personale e quella degli altri siano indissolubilmente legate, due facce della stessa medaglia. Io non posso prosperare veramente se la mia comunità è in rovina, e la comunità non può prosperare se i suoi membri non si realizzano.
Le origini di questo pensiero sono altrettanto profonde. La formazione neoconfuciana di Kano lo aveva impregnato dell’idea che l’individuo avesse un dovere morale verso la famiglia, la comunità e lo stato. L’auto-coltivazione era finalizzata a servire meglio la società. A questo si aggiunse l’influenza del pensiero buddista, in particolare il concetto di interdipendenza (engi), secondo cui nessun fenomeno esiste isolatamente, ma ogni cosa è connessa a tutte le altre in una fitta rete di cause ed effetti. Queste antiche sapienze orientali trovarono una sorprendente consonanza in alcuni aspetti dell’umanesimo occidentale che Kano studiò, in particolare nell’idea di una fratellanza universale che trascende i confini nazionali e culturali. Jita Kyoei fu la sua personale sintesi di queste correnti di pensiero, una formulazione moderna e universale di un’antica verità etica.
Sul tatami del Kodokan, questo principio fu tradotto in una serie di pratiche e atteggiamenti che rivoluzionarono la cultura delle arti marziali. L’innovazione più significativa fu la ridefinizione del concetto di “avversario”. Nel randori del Judo, specialmente in allenamento, non ci si confronta con un “nemico” da annientare, ma con un “partner” con cui collaborare per un obiettivo comune: l’apprendimento. La dinamica tra Tori (colui che esegue la tecnica) e Uke (colui che la subisce) è l’incarnazione perfetta di Jita Kyoei. Per imparare a proiettare efficacemente, Tori ha bisogno di un Uke che attacchi con sincerità e che sappia cadere in sicurezza. Per imparare a cadere e a difendersi, Uke ha bisogno di un Tori che applichi le tecniche con precisione e controllo. I loro ruoli sono intercambiabili e la loro crescita è interdipendente. Il progresso di uno è impossibile senza la collaborazione dell’altro. Questo trasforma il confronto da un gioco a somma zero (la mia vittoria è la tua sconfitta) a un gioco a somma positiva (entrambi guadagniamo qualcosa dall’interazione).
Questa interdipendenza genera un profondo senso di responsabilità. Tori ha la responsabilità della sicurezza di Uke. Deve applicare la tecnica con il controllo necessario per non ferirlo, adattando la sua forza al livello del partner. Questo insegna l’empatia, la cura, il rispetto per l’integrità fisica e la dignità dell’altro. È l’antitesi dell’etica del combattimento da strada, dove lo scopo è infliggere il massimo danno. Il dojo diventa così una microsocietà basata sulla fiducia. Posso dare il massimo nel mio attacco solo perché ho fiducia che il mio partner mi controllerà, e viceversa.
L’intera struttura sociale del dojo è permeata da Jita Kyoei. La relazione tra i praticanti più esperti (senpai) e i principianti (kohai) non è basata sul dominio, ma sulla mentorship. È dovere del senpai aiutare, correggere e incoraggiare il kohai, condividendo la propria conoscenza non per ostentarla, ma per contribuire alla crescita della comunità. A sua volta, il kohai deve mostrare rispetto e gratitudine, impegnandosi al massimo per onorare l’insegnamento ricevuto. Questa cultura dell’aiuto reciproco crea un ambiente di apprendimento straordinariamente fertile, in cui il successo individuale è percepito come un successo collettivo. Quando un membro del dojo vince una competizione importante, l’intera scuola festeggia, perché quella vittoria è il frutto del lavoro di tutti: dei partner che si sono prestati a subire migliaia di proiezioni, degli istruttori che hanno dedicato il loro tempo, dei compagni che hanno offerto incoraggiamento.
Il simbolo più visibile di questa filosofia è il rituale del saluto, il Rei (礼). Il piccolo inchino che si esegue prima e dopo ogni pratica non è un gesto di sottomissione, né una vuota formalità. È un’espressione carica di significato. Con il saluto iniziale, si dice al partner: “Ti ringrazio per l’opportunità che mi offri di praticare con te. Mi impegno a fare del mio meglio e a rispettare la tua incolumità”. Con il saluto finale, si dice: “Grazie per la lezione che mi hai dato. Qualunque sia stato l’esito del nostro confronto, ho imparato qualcosa grazie a te”. È un costante promemoria del debito di gratitudine che abbiamo verso coloro che ci aiutano a crescere.
Come per Seiryoku Zen’yo, anche l’orizzonte di Jita Kyoei si estende ben oltre il tatami, fino ad abbracciare ogni sfera della vita umana. Anzi, è proprio in questo ambito che il principio rivela la sua portata più rivoluzionaria. Applicare Jita Kyoei nella vita quotidiana significa vivere con la consapevolezza che il nostro benessere individuale è inestricabilmente connesso a quello degli altri. Nella famiglia e nella cerchia di amicizie, significa coltivare relazioni basate sul sostegno reciproco, sulla comunicazione onesta e sull’empatia, comprendendo che la gioia e il dolore degli altri ci riguardano direttamente. Significa contribuire attivamente al benessere della propria famiglia, non per obbligo, ma per la gioia di vedere prosperare le persone che amiamo.
Nell’ambito professionale, Jita Kyoei è un potente antidoto alla cultura della competizione spietata e dell’individualismo esasperato. Promuove il lavoro di squadra, la condivisione delle conoscenze, la mentorship e la creazione di ambienti di lavoro in cui il successo del team ha la precedenza sul tornaconto personale. Significa competere in modo leale e costruttivo, rallegrandosi del successo di un collega perché si comprende che un ambiente di lavoro sano e prospero è un vantaggio per tutti coloro che ne fanno parte. A livello sociale più ampio, Jita Kyoei è un richiamo alla cittadinanza attiva e alla responsabilità sociale. Significa partecipare alla vita della propria comunità, impegnarsi nel volontariato, rispettare i beni comuni e agire in modi che contribuiscano al progresso della società nel suo insieme. È l’idea che la propria realizzazione personale non può essere completa se intorno a noi ci sono ingiustizia, povertà e sofferenza.
La visione ultima di Kano era ancora più vasta e audace. Egli sognava un mondo in cui il principio di Jita Kyoei potesse governare le relazioni tra le nazioni. Fu uno dei più grandi promotori del movimento olimpico in Asia, vedendo nello sport un linguaggio universale capace di abbattere le barriere di razza, cultura e ideologia. Credeva che se i giovani di tutto il mondo avessero potuto incontrarsi su un campo di gara o su un tatami, imparando a rispettarsi e a competere lealmente secondo regole condivise, avrebbero sviluppato legami di amicizia e comprensione reciproca. Questa esperienza, secondo Kano, sarebbe stata il più potente antidoto al nazionalismo, al pregiudizio e alla guerra. Il Judo, nella sua visione, doveva essere un ambasciatore di pace, uno strumento per costruire ponti di amicizia tra i popoli, dimostrando concretamente che la cooperazione per la mutua prosperità è una via non solo più etica, ma anche più vantaggiosa del conflitto per il dominio.
In conclusione, Seiryoku Zen’yo e Jita Kyoei non sono due filosofie separate, ma due elementi di un unico, integrato sistema di pensiero. Sono come il respiro, un’inspirazione e un’espirazione. Seiryoku Zen’yo è l’atto dell’inspirare: raccogliere la propria energia, focalizzarla, renderla efficiente e potente. È il percorso di sviluppo e potenziamento dell’io. Jita Kyoei è l’atto dell’espirare: dirigere quell’energia potenziata verso l’esterno, per il bene degli altri, contribuendo alla crescita comune. È la finalità etica che dà un senso allo sviluppo dell’io. Senza la prima, la seconda sarebbe un’intenzione debole e inefficace. Senza la seconda, la prima sarebbe una forza cieca e potenzialmente egoistica. Insieme, esse formano la “Via” del Judo: un percorso di vita dedicato a diventare la versione migliore e più capace di sé stessi, al fine di contribuire a creare un mondo migliore per tutti. Questo è il lascito immortale di Jigoro Kano, un messaggio di una profondità e di un’attualità sconcertanti, che continua a risuonare con forza in chiunque scelga di indossare un judogi e di mettersi in cammino sul tatami.
Oltre il Tatami: Kano Educatore e Diplomatico
L’immagine di Jigoro Kano è indissolubilmente legata al judogi bianco, al tatami e alla fondazione di un’arte marziale che ha conquistato il mondo. Tuttavia, confinare la sua figura e la sua opera monumentale entro i limiti del dojo significherebbe osservare un gigante attraverso il buco di una serratura. Il Kodokan, per quanto centrale nella sua vita, non fu mai il fine ultimo della sua ambizione, ma piuttosto il laboratorio, la fucina in cui forgiare principi universali destinati a essere applicati su una scala immensamente più vasta. Kano fu, prima e soprattutto, un educatore nel senso più nobile e completo del termine: un riformatore visionario che dedicò la propria esistenza a plasmare non solo il corpo e lo spirito dei suoi allievi, ma l’intero sistema pedagogico di una nazione in febbrile trasformazione. E da questa sua identità di educatore scaturì, come una conseguenza naturale e potente, la sua seconda grande missione: quella di diplomatico culturale, un pioniere che vide nello sport un linguaggio universale capace di costruire ponti di comprensione e amicizia tra i popoli. Le sue battaglie più importanti non si combatterono sul tatami per la supremazia di una tecnica, ma nelle aule del Ministero dell’Educazione per l’affermazione di una pedagogia olistica e nelle sale dei congressi del Comitato Olimpico Internazionale per la promozione di un ideale di pace globale. Comprendere il Kano educatore e il Kano diplomatico significa scoprire il vero orizzonte della sua visione, un orizzonte in cui il Judo stesso si rivela per ciò che era nella mente del suo fondatore: non un punto d’arrivo, ma lo strumento perfetto per la realizzazione di un progetto umano e sociale di portata storica.
Kano l’Educatore: La Costruzione dell’Uomo Nuovo
Per afferrare la portata rivoluzionaria del contributo di Jigoro Kano all’educazione, è necessario calarsi nel contesto del Giappone Meiji (1868-1912). La nazione, dopo oltre due secoli di isolamento autoimposto, si era lanciata in una corsa sfrenata verso la modernizzazione, consapevole che la propria sopravvivenza dipendesse dalla capacità di eguagliare la potenza tecnologica, militare ed economica dell’Occidente. Il sistema educativo divenne uno dei principali campi di battaglia di questa trasformazione. Da un lato, persisteva l’eredità del periodo Edo, un’educazione d’élite basata sullo studio mnemonico dei classici cinesi e sulla rigida morale neoconfuciana, un sistema che privilegiava la lealtà e la disciplina ma che era del tutto inadeguato a formare i cittadini di uno stato moderno. Dall’altro, si assisteva a un’importazione spesso acritica e caotica di modelli pedagogici occidentali, principalmente americani, francesi e tedeschi. Le scuole divennero un mosaico di approcci diversi, in cui l’enfasi sulla scienza, sulla tecnica e sulle lingue straniere rischiava di creare una nuova generazione sradicata dalla propria cultura, abile nell’imitare l’Occidente ma priva di un solido centro morale e spirituale.
In questo scenario, Kano si distinse come una voce critica e originale. Formatosi ai più alti livelli del sistema accademico giapponese e allo stesso tempo profondo conoscitore della cultura occidentale, egli rifiutò entrambi gli estremi. Criticava l’educazione tradizionale per la sua eccessiva enfasi sull’erudizione passiva e per la sua totale negligenza nei confronti dello sviluppo fisico. Allo stesso tempo, diffidava di un modernismo che, nel perseguire l’efficienza materiale, rischiava di trascurare la formazione del carattere. La sua proposta fu una sintesi illuminata, una “terza via” che egli riassunse nel concetto di chii-toku-tai (智徳体). Questa non era una sua invenzione originale, ma egli la reinterpretò e la pose al centro di una filosofia pedagogica organica. L’obiettivo dell’educazione, secondo Kano, doveva essere lo sviluppo armonico e integrato di tre aree fondamentali: l’intelletto e la conoscenza (chii), la moralità e la virtù (toku), e il corpo e la salute fisica (tai). Nessuno di questi tre elementi poteva essere sacrificato o trascurato senza compromettere la formazione completa dell’individuo. Un uomo colto ma moralmente debole era pericoloso; un uomo virtuoso ma fisicamente fragile era inefficace; un uomo forte ma ignorante era una minaccia. Solo l’equilibrio tra mente, corpo e spirito poteva creare l’ “uomo nuovo” di cui il Giappone aveva bisogno.
È in questa cornice che si comprende la sua insistenza quasi ossessiva sull’importanza dell’educazione fisica (taiiku). Per i suoi contemporanei, sia tradizionalisti che modernisti, l’attività fisica era considerata, nel migliore dei casi, una ricreazione salutare, un modo per sfogare le energie giovanili; nel peggiore, una perdita di tempo che sottraeva ore preziose allo studio. Kano sovvertì radicalmente questa prospettiva. Per lui, il corpo non era un semplice contenitore della mente, ma uno strumento pedagogico di primaria importanza. Il taiiku, e in particolare la pratica di discipline come il Judo, non serviva solo a rendere il corpo forte e sano; serviva a insegnare lezioni che la mente da sola non avrebbe mai potuto apprendere. Sul tatami, un giovane imparava a gestire la paura, a rispettare l’avversario, a obbedire alle regole, a sopportare la fatica e il dolore, a rialzarsi dopo una caduta, a controllare le proprie emozioni, a collaborare con i compagni. Queste non erano virtù astratte da leggere su un libro, ma esperienze concrete, vissute attraverso il corpo e impresse nella memoria muscolare e nervosa. Il dojo diventava una scuola di carattere, una palestra di vita in cui i grandi principi filosofici di Seiryoku Zen’yo e Jita Kyoei potevano essere compresi e assimilati in modo esperienziale.
Questa visione non rimase confinata nei suoi scritti. Kano la tradusse in azione attraverso una carriera sfolgorante all’interno del sistema educativo nazionale, che si svolse parallelamente alla crescita del Kodokan. Già nel 1882, lo stesso anno della fondazione del suo dojo, divenne professore presso la prestigiosa Gakushuin, la scuola d’élite destinata all’educazione dei figli dell’aristocrazia e della famiglia imperiale. In questo ambiente esclusivo, egli ebbe l’opportunità di testare le sue idee con la futura classe dirigente del paese. Ma il suo incarico più importante e influente fu senza dubbio quello di direttore della Scuola Normale Superiore di Tokyo (l’attuale Università di Tsukuba), una posizione che ricoprì per quasi venticinque anni, dal 1893 al 1919, con alcune interruzioni.
La Scuola Normale Superiore era l’istituzione più prestigiosa del Giappone per la formazione degli insegnanti delle scuole secondarie. Esserne il direttore significava avere il potere di plasmare la mente e i metodi di migliaia di futuri educatori, che a loro volta avrebbero influenzato centinaia di migliaia di studenti in tutto il paese. Kano trasformò questo istituto nel suo “Kodokan pedagogico”. Introdusse riforme radicali, ponendo un’enfasi senza precedenti sull’educazione fisica e morale. Creò dipartimenti specifici, chiamò i migliori esperti e, soprattutto, rese obbligatoria per tutti gli studenti la pratica di discipline sportive. Fu qui che introdusse ufficialmente il Judo e il Kendo nel curriculum, non come addestramento al combattimento, ma come parte integrante del programma di “coltivazione della virtù”. Voleva che i futuri insegnanti fossero non solo preparati nelle loro materie, ma anche modelli di equilibrio, disciplina e integrità fisica e morale. Attraverso il suo lavoro alla Scuola Normale Superiore, Kano riuscì a diffondere capillarmente la sua filosofia in tutto il sistema scolastico giapponese. L’idea che lo sport e le arti marziali (il budo) potessero essere un potente strumento per la formazione del carattere divenne un pilastro dell’educazione giapponese, un tratto distintivo che, in varie forme, persiste ancora oggi.
Il suo impegno non si fermò ai confini nazionali. Negli anni ’20, viaggiò in Cina come consulente, contribuendo alla riforma del sistema educativo cinese e gettando le basi per l’introduzione dell’educazione fisica moderna in quel paese. La sua influenza come educatore fu immensa, un’onda lunga che contribuì a definire non solo il ruolo dello sport nella società, ma l’ideale stesso di cittadino a cui il Giappone moderno aspirava: un individuo colto, disciplinato, sano e moralmente retto, capace di utilizzare le proprie energie nel modo più efficiente per il bene della nazione e della comunità.
Kano il Diplomatico: lo Sport come Strumento di Pace
Dalla sua profonda convinzione nel potere educativo dello sport scaturì, quasi inevitabilmente, la sua carriera di diplomatico. In un’epoca in cui il Giappone lottava per ottenere il riconoscimento e il rispetto delle potenze occidentali, Kano comprese con straordinaria lucidità che lo sport poteva essere un’arena in cui dimostrare il valore della propria cultura e, allo stesso tempo, un ponte per superare i pregiudizi e costruire una reale comprensione internazionale. La sua filosofia di Jita Kyoei, “amicizia e mutua prosperità”, non era per lui un ideale da confinare all’interno del dojo o delle scuole giapponesi. Era un principio universale che doveva essere applicato alle relazioni tra i popoli. E quale strumento migliore dello sport, con il suo linguaggio universale basato sul fair play, sul rispetto delle regole e sul confronto leale, per promuovere questo ideale?
La sua statura internazionale, la sua perfetta padronanza della lingua e della cultura inglese, e la sua visione dello sport come veicolo di valori morali non passarono inosservate. Nel 1909, ricevette una lettera dal barone Pierre de Coubertin, il padre dei Giochi Olimpici moderni. De Coubertin, alla ricerca di figure di alto profilo per espandere il suo movimento al di fuori dell’Europa e del Nord America, invitò Kano a diventare membro del Comitato Olimpico Internazionale (CIO). Kano accettò, diventando il primo membro asiatico nella storia dell’organizzazione. Questo incarico, che mantenne con incrollabile dedizione per quasi trent’anni fino alla sua morte, non fu per lui un semplice titolo onorifico. Fu una missione sacra.
Kano si gettò nel lavoro del CIO con l’energia e la metodicità che lo contraddistinguevano. Il suo primo, grande obiettivo fu quello di garantire la partecipazione del Giappone ai Giochi. Nel 1912, a Stoccolma, una piccola delegazione giapponese sfilò per la prima volta alla cerimonia di apertura, un momento di enorme valore simbolico. Kano stesso guidò la squadra, agendo non solo come capo delegazione, ma come mentore e guida spirituale per i giovani atleti. Non era interessato primariamente alle medaglie. Ciò che gli importava era che i suoi atleti si comportassero con dignità, rispettassero gli avversari e le regole, e proiettassero un’immagine del Giappone positiva e moderna. Per lui, la partecipazione stessa era una vittoria, un’affermazione del principio che il Giappone era parte a pieno titolo della comunità mondiale delle nazioni. Continuò a guidare le delegazioni giapponesi ad Anversa (1920), Parigi (1924), Amsterdam (1928) e Los Angeles (1932), diventando una figura familiare e rispettata nel mondo olimpico.
La sua visione dell’Olimpismo era profondamente personale e coerente con la sua filosofia. Mentre molti vedevano i Giochi principalmente come un’arena per l’affermazione del prestigio nazionale, una sorta di guerra combattuta con mezzi pacifici, Kano li vedeva come la più grande manifestazione pratica del principio di Jita Kyoei. In un celebre discorso, affermò che l’obiettivo fondamentale delle Olimpiadi non era la competizione, ma la creazione di un’atmosfera di amicizia e rispetto reciproco. Erano un “festival dell’umanità”, un’occasione unica per i giovani di tutto il mondo, al di là delle differenze di razza, religione e sistema politico, di vivere insieme, di gareggiare lealmente e di scoprire la comune umanità che li univa. Questa interazione diretta, secondo Kano, era il più potente antidoto al veleno del nazionalismo, del pregiudizio e della propaganda che portava alle guerre.
Negli anni ’30, mentre le nubi del militarismo si addensavano sul Giappone e sul mondo, la missione diplomatica di Kano divenne ancora più urgente e si concentrò su un obiettivo ambizioso e quasi impensabile: portare i Giochi Olimpici a Tokyo. Questa non era un’impresa dettata da vanità nazionalistica. Al contrario, in un momento in cui il suo paese si stava isolando sempre di più sulla scena internazionale a causa delle sue politiche espansionistiche in Asia, Kano vedeva l’organizzazione delle Olimpiadi come un’opportunità unica per riaprire un canale di dialogo, per mostrare al mondo un volto diverso del Giappone e per usare lo spirito olimpico per contrastare le forze della guerra.
La sua campagna per le Olimpiadi di Tokyo del 1940 fu un capolavoro di diplomazia. Dovette superare ostacoli enormi. Internamente, dovette convincere un governo sempre più dominato dai militari a investire risorse in un evento internazionale di pace. Esternamente, dovette lottare contro la crescente diffidenza verso il Giappone e contro la forte candidatura di città europee come Roma, sostenuta da Mussolini. Kano viaggiò instancabilmente per anni, incontrando capi di stato, ministri e membri del CIO, tessendo una fitta rete di alleanze e amicizie personali. Usò tutta la sua influenza, il suo carisma e la sua logica impeccabile per perorare la causa di Tokyo. Il suo argomento era potente: assegnare i Giochi a una nazione asiatica per la prima volta nella storia avrebbe dato un segnale di universalità senza precedenti al movimento olimpico e avrebbe contribuito a promuovere la pace in una regione del mondo sempre più turbolenta.
Il suo sforzo titanico fu coronato dal successo nel 1936, quando il CIO assegnò ufficialmente a Tokyo i XII Giochi Olimpici. Per Kano, fu il culmine di una vita spesa a costruire ponti. Tuttavia, la vittoria fu effimera. Le crescenti tensioni internazionali e lo scoppio della Seconda guerra sino-giapponese nel 1937 resero l’organizzazione sempre più difficile. Molte nazioni minacciarono il boicottaggio. Nel 1938, a 77 anni, Kano si imbarcò per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio, diretto al Cairo per una riunione cruciale del CIO. Lì, con la sua autorevolezza e la sua passione, riuscì ancora una volta a difendere la causa di Tokyo e a ottenere la riconferma dei Giochi (che sarebbero stati comunque cancellati poco dopo a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale).
Fu sulla via del ritorno, a bordo della nave a vapore Hikawa Maru, che la sua straordinaria esistenza giunse al termine. Morì di polmonite il 4 maggio 1938, in servizio fino all’ultimo respiro. La sua scomparsa non fu quella di un uomo che si ritira a vita privata, ma quella di un combattente della pace che cade sul campo. La sua intera vita, dal piccolo dojo al tempio di Eishō-ji fino alle grandi arene della diplomazia internazionale, fu la coerente e instancabile applicazione di un’unica, grande idea: che il miglioramento di sé stessi ha un senso solo se contribuisce al miglioramento del mondo, e che l’energia umana, se usata con intelligenza e con un fine virtuoso, può superare ogni ostacolo. La sua eredità più profonda, al di là del Judo, è questo messaggio di speranza e di responsabilità, un invito a guardare oltre il proprio tatami personale per contribuire, ciascuno con i propri mezzi, alla costruzione di una comunità globale basata sull’amicizia e sulla mutua prosperità.
Le Opere e gli Scritti: La Mente dietro la Pratica
Se la pratica del Judo è il corpo possente dell’eredità di Jigoro Kano e il Kodokan ne è il cuore pulsante, allora i suoi scritti ne sono l’anima e il sistema nervoso. È in questa vasta e meticolosa produzione letteraria — composta da saggi, articoli, manuali tecnici, discorsi ufficiali e corrispondenza privata — che si può trovare il codice sorgente del suo pensiero, la logica cristallina che sottende ogni sua azione e ogni sua scelta. Kano non fu un semplice uomo d’azione che in un secondo momento cercò di giustificare a parole le proprie intuizioni. Al contrario, fu un pensatore sistematico, un intellettuale nel senso più pieno del termine, per il quale la parola scritta non era un accessorio, ma uno strumento essenziale e inseparabile dalla pratica stessa. Egli brandì la penna con la stessa precisione e lo stesso scopo con cui i suoi allievi applicavano una tecnica sul tatami. Per Kano, scrivere non era un atto di vanità o di autocelebrazione, ma una necessità profonda e multiforme: era un atto di codificazione per preservare la conoscenza, un atto di legittimazione per elevare la sua disciplina, un atto di disseminazione per garantirne la corretta comprensione e, infine, un atto di introspezione per continuare a definire e affinare la sua stessa, grandiosa visione. Esplorare questo corpus letterario significa andare oltre l’osservazione del “cosa” Kano ha creato, per comprendere in modo definitivo il “perché” lo ha fatto, accedendo direttamente alla mente eccezionale che ha concepito il Judo non solo come un’arte marziale, ma come un’articolata filosofia per la vita.
La Ragione della Scrittura: Codificare, Legittimare, Diffondere
Per comprendere l’urgenza che spinse Kano a dedicare una parte così significativa del suo tempo e delle sue energie alla scrittura, bisogna considerare il contesto culturale in cui operava. Le tradizioni marziali giapponesi, i koryu, erano state per secoli sistemi chiusi, esoterici. La conoscenza era trasmessa oralmente da maestro a discepolo (ishin-denshin, “da cuore a cuore”), spesso attraverso massime criptiche e una pratica basata sull’imitazione, con i segreti più profondi (okuden) rivelati solo a un ristretto cerchio di iniziati. Mancava quasi del tutto una tradizione di manualistica tecnica accessibile e di analisi teorica scritta. Kano, con la sua formazione scientifica e la sua mentalità moderna, vide in questo approccio un limite enorme, una delle cause della stagnazione e del declino del jujutsu nell’era Meiji. La sua prima, fondamentale ragione per scrivere fu quindi la codificazione. Sentiva il bisogno impellente di trasformare un sapere fluido e spesso ambiguo in un corpo di conoscenze chiaro, sistematico e trasmissibile. Voleva creare un “testo sacro” laico per la sua disciplina, un canone a cui chiunque, in qualsiasi parte del mondo, potesse fare riferimento. Questo impulso si concretizzò nella meticolosa classificazione delle tecniche (Go Kyo no Waza), nella definizione precisa della terminologia e nella stesura di manuali che spiegavano non solo come eseguire una mossa, ma anche i principi biomeccanici che la rendevano efficace. Era un atto rivoluzionario: trattare un’arte marziale con lo stesso rigore intellettuale con cui un botanico classifica le piante o un linguista analizza una grammatica.
La seconda ragione, altrettanto cruciale, fu la legittimazione. Nell’alta società Meiji, il jujutsu era visto con sospetto, considerato una pratica da rissosi e da nostalgici di un’era feudale superata. Per far accettare il suo Judo come strumento educativo degno di essere introdotto nelle scuole più prestigiose e nelle forze armate, Kano sapeva di dover combattere una battaglia culturale. Non bastava dimostrare la superiorità del Judo sul campo di gara; era necessario dimostrarne la superiorità intellettuale e morale. I suoi scritti furono la sua arma principale in questa battaglia. Attraverso saggi e articoli pubblicati su riviste di primo piano, egli presentò il Judo non come una mera abilità fisica, ma come un sofisticato sistema pedagogico, una filosofia di vita e una scienza del movimento. Usava un linguaggio colto, infarcito di riferimenti alla filosofia classica, alla scienza moderna e alla pedagogia, per dialogare con l’élite intellettuale e politica del suo tempo. I suoi scritti erano la prova che il Judo non era un’attività per il corpo contro la mente, ma un’attività per il corpo attraverso la mente, un metodo per coltivare l’intelletto e la virtù tramite l’esercizio fisico.
Infine, con la rapida e travolgente diffusione del Judo in Giappone e poi nel mondo, Kano si trovò di fronte a una nuova sfida: la disseminazione corretta del suo messaggio. Temeva, a ragione, che la sua disciplina venisse fraintesa, ridotta a un semplice sport competitivo o, peggio, a un brutale metodo di combattimento. Vedeva il rischio che l’essenza filosofica, i principi di Seiryoku Zen’yo e Jita Kyoei, venisse messa in secondo piano o del tutto dimenticata in favore della sola ricerca della vittoria. I suoi scritti divennero quindi uno strumento di controllo della qualità, un faro per illuminare la “Via” corretta. Scrisse instancabilmente per ricordare ai praticanti di tutto il mondo quale fosse il vero scopo del Judo. In ogni articolo, in ogni discorso, ribadiva la centralità della filosofia, l’importanza dell’etichetta (reigi), il valore educativo della pratica. I suoi scritti erano un costante richiamo all’ordine, un tentativo di preservare l’integrità della sua creazione contro i rischi della banalizzazione e della commercializzazione. Per lui, un judoka che vinceva tutte le gare ma non comprendeva i principi fondamentali era un fallimento del suo metodo, non un successo.
I Grandi Temi del Corpus Kanoiano
Analizzando la vasta produzione di Kano, emergono alcuni temi ricorrenti che costituiscono l’architettura del suo pensiero. Questi temi sono affrontati con diversi livelli di approfondimento a seconda del pubblico e del contesto, ma rimangono una costante in tutta la sua opera letteraria.
1. La Dialettica tra Jutsu e Dō: La Fondazione di un Nuovo Paradigma
Il tema forse più fondamentale, la chiave di volta di tutto il suo pensiero, è l’articolazione della distinzione tra jutsu (tecnica) e Dō (Via). Nei suoi scritti, Kano non si limita a definire i due termini, ma costruisce un’argomentazione storica e filosofica per spiegare perché questa transizione fosse non solo auspicabile, ma necessaria. In numerosi saggi, egli analizza la condizione del bujutsu (le arti marziali classiche) nel suo tempo. Spiega come queste arti, nate e sviluppate in un’epoca di guerra costante, avessero come unico scopo l’efficacia sul campo di battaglia. Il loro valore era puramente utilitaristico: sconfiggere e, se necessario, uccidere il nemico. Con l’avvento della pace del periodo Edo e, soprattutto, con la modernizzazione dell’era Meiji, questo scopo era venuto meno. Le arti marziali, scriveva Kano, si trovavano a un bivio: o scomparire come anacronistiche reliquie di un’epoca passata, o trasformarsi, trovando un nuovo scopo e una nuova rilevanza nella società moderna. Il passaggio da jutsu a Dō era, per lui, questa trasformazione necessaria. Il Dō prende l’arsenale tecnico del jutsu, lo purifica dalle sue componenti più letali e lo riorienta verso un fine più elevato: non più la sconfitta di un nemico esterno, ma il perfezionamento di sé stessi. “Il Judo,” scriveva, “non è primariamente un’arte di combattimento, ma un’arte di vita”. In un altro passaggio, chiarisce: “Lo scopo ultimo del Judo è la perfezione del carattere individuale e il suo contributo al bene della società”. Questa argomentazione, ripetuta e affinata in decine di scritti, serviva a posizionare il Judo non come l’ennesima scuola di jujutsu, ma come il capostipite di una nuova categoria di discipline: il budo moderno, concepito come un percorso di educazione integrale.
2. La Razionalizzazione Scientifica della Tecnica
Un secondo pilastro della sua produzione scritta è la demistificazione e la spiegazione scientifica delle tecniche marziali. Kano era un uomo del suo tempo, profondamente affascinato dal metodo scientifico e dal razionalismo. Rifiutava l’aura di mistero e di “poteri segreti” che spesso ammantava i maestri di jujutsu. Nei suoi manuali e articoli tecnici, egli adotta un approccio quasi da ingegnere. Spiega che l’efficacia di una proiezione non dipende da un’energia esoterica (ki), ma da una corretta applicazione dei principi della fisica: leva, fulcro, baricentro, slancio, gravità. La sua analisi della triade Kuzushi-Tsukuri-Kake è un esempio magistrale di questo approccio. Invece di limitarsi a mostrare il movimento, ne spiega la logica interna. Il kuzushi, scrive, è il “momento della verità”, l’applicazione di una forza minima per creare una vulnerabilità massima, un concetto che analizza in termini di vettori e stabilità. Il tsukuri è descritto come un problema di geometria dinamica, il posizionamento del proprio corpo per massimizzare la leva. Il kake è la conseguenza logica, l’applicazione finale della forza in un sistema ormai compromesso. Questo linguaggio, preciso e analitico, era inedito. Serviva a due scopi: primo, rendeva l’apprendimento molto più rapido e intelligente, perché gli allievi non dovevano più limitarsi a imitare, ma potevano capire la ragione per cui una tecnica funzionava; secondo, conferiva al Judo una dignità intellettuale, presentandolo come una disciplina basata su leggi universali e oggettive, degna di essere studiata a livello accademico.
3. La Spiegazione dei Principi Filosofici Centrali
Sebbene Seiryoku Zen’yo e Jita Kyoei siano i principi più famosi, è solo attraverso gli scritti di Kano che se ne può comprendere l’intera portata e complessità. Egli dedicò innumerevoli pagine a esplorare questi concetti, ben oltre la loro applicazione sul tatami. Nei suoi saggi, Seiryoku Zen’yo viene presentato come una filosofia universale dell’efficienza. Kano scrive di come questo principio dovrebbe essere applicato alla gestione di una nazione, all’economia, all’educazione e alla vita quotidiana di ogni individuo. Fa esempi concreti: un politico che applica Seiryoku Zen’yo è colui che investe le risorse dello stato nei progetti più benefici per la collettività; un imprenditore è colui che ottimizza la produzione eliminando gli sprechi; uno studente è colui che organizza il proprio studio per massimizzare l’apprendimento. Dimostra una notevole erudizione, collegando questo principio sia a concetti tradizionali orientali (come l’agire senza sforzo del Taoismo) sia alle teorie economiche e utilitaristiche occidentali. Similmente, Jita Kyoei viene approfondito nei suoi scritti come la base di un’etica globale. Kano scrive con passione di come la prosperità individuale sia illusoria se non è condivisa. Critica l’individualismo sfrenato che vedeva emergere con la modernizzazione e propone un modello di società basato sulla cooperazione e sulla responsabilità reciproca. I suoi discorsi al Comitato Olimpico Internazionale sono forse l’espressione più alta di questa visione, in cui egli descrive il principio di Jita Kyoei come l’unica, vera speranza per un mondo di pace, un mondo in cui le nazioni scelgano di collaborare per una “mutua prosperità” invece di combattersi per il dominio. I suoi scritti ci mostrano che, per lui, questi non erano slogan, ma principi operativi per la riorganizzazione dell’intera società umana.
Le Opere Chiave: Un Viaggio nella Biblioteca di Kano
La produzione letteraria di Kano può essere suddivisa in diverse categorie, ognuna con un suo scopo e un suo pubblico.
I manuali tecnici rappresentano il suo sforzo di codificazione. Opere come il Judo Kyohon (Manuale di Judo) e, soprattutto, il monumentale “Kodokan Judo”, pubblicato postumo ma basato interamente sul suo sistema, sono dei capolavori di pedagogia marziale. In essi, le tecniche sono raggruppate, classificate e spiegate con una chiarezza e un dettaglio senza precedenti. Il Gokyo no Waza, la classificazione delle proiezioni in cinque gruppi di difficoltà crescente, è un esempio geniale di progressione didattica, e le descrizioni contenute in questi libri sono ancora oggi il punto di riferimento per l’insegnamento tecnico in tutto il mondo.
Gli articoli per riviste furono il suo principale canale di comunicazione con il grande pubblico e con la comunità judoistica. Scrisse regolarmente per la rivista ufficiale del Kodokan, inizialmente chiamata “Kokka” e poi “Yuko no Katsudo” (“L’Attività Efficace”, un nome che è di per sé un omaggio a Seiryoku Zen’yo). In questi articoli, Kano spaziava con incredibile versatilità. Poteva scrivere un pezzo altamente tecnico sulla corretta esecuzione di una leva articolare, un saggio filosofico sulla natura del Dō, un resoconto di viaggio delle sue missioni diplomatiche, o una severa reprimenda contro la commercializzazione e la brutalizzazione del Judo che osservava in alcune scuole. La lettura di questi articoli, raccolti modernamente in varie antologie, offre uno spaccato vivido e dinamico del suo pensiero in evoluzione e delle battaglie culturali che combatteva quotidianamente.
I discorsi e le lezioni, le cui trascrizioni sono state fortunatamente conservate, rivelano il Kano oratore e pedagogo. Mostrano la sua abilità nel modulare il messaggio a seconda dell’uditorio. Quando parlava agli studenti della Scuola Normale Superiore, usava il linguaggio del formatore di caratteri. Quando si rivolgeva ai membri del Comitato Olimpico, parlava da statista e da umanista. Quando teneva una lezione tecnica al Kodokan, era il maestro rigoroso e preciso. Queste trascrizioni sono preziose perché catturano un’immediatezza e una passione che a volte la prosa più formale dei saggi non riesce a trasmettere.
Infine, bisogna menzionare le moderne raccolte antologiche come “Mind Over Muscle: Writings from the Founder of Judo”. Queste opere, curate da studiosi successivi, hanno avuto il merito immenso di raccogliere, tradurre e organizzare tematicamente i suoi scritti più importanti, che erano sparsi in decine di pubblicazioni diverse. Hanno reso il pensiero di Kano accessibile a un pubblico globale, permettendo a chiunque di andare oltre la pratica per dialogare direttamente con le idee del fondatore.
In definitiva, l’eredità scritta di Jigoro Kano è vasta e profonda quanto la sua eredità pratica. È un corpus che rivela la figura di un intellettuale rinascimentale, a suo agio tanto con i principi della biomeccanica quanto con le sottigliezze della filosofia morale. I suoi scritti non sono un semplice commentario alla sua opera, ma ne sono parte integrante e fondamentale. Hanno garantito che il Judo non fosse solo un insieme di tecniche destinate a evolversi o a essere dimenticate, ma un sistema di pensiero robusto e coerente, capace di sopravvivere al suo creatore e di continuare a ispirare milioni di persone. Leggere Kano oggi significa comprendere che ogni volta che si sale su un tatami, non si sta semplicemente partecipando a uno sport, ma si sta prendendo parte a un dialogo con una delle menti più brillanti e visionarie del Giappone moderno, un uomo che ha creduto, e ha scritto per dimostrarlo, che il modo in cui ci muoviamo nel mondo può, letteralmente, cambiare il mondo stesso.
L'Eredità e gli Eredi del Maestro
Valutare l’eredità di un uomo della statura di Jigoro Kano è un’impresa complessa, poiché il suo lascito non è un monumento monolitico da ammirare a distanza, ma un organismo vivente, un fiume possente che, scaturito da una sorgente solitaria, si è diviso in innumerevoli bracci, affluenti e delta, nutrendo terreni vicini e lontani, a volte in modi che lo stesso fondatore non avrebbe mai potuto prevedere. La sua eredità non risiede soltanto nella disciplina del Judo, per quanto universale essa sia diventata, ma nelle istituzioni che ha creato per proteggerla, nelle idee rivoluzionarie che ha infuso nella cultura del suo tempo e, soprattutto, negli uomini che ha formato. Questi eredi, sia quelli diretti che quelli spirituali, sono diventati a loro volta sorgenti, portando la fiaccola del suo insegnamento in nuove direzioni, interpretandone la luce secondo la propria sensibilità e il proprio genio. Analizzare l’eredità di Kano significa quindi seguire il corso di questo fiume, esplorarne i canali principali, scoprire le sue deviazioni più sorprendenti e comprendere come la sua visione continui a plasmare il mondo delle arti marziali, dello sport e dell’educazione a quasi un secolo dalla sua scomparsa. È un’eredità fatta di materia e di spirito, di continuità e di rottura, di fedeltà e di innovazione, la cui ricchezza risiede proprio nella sua inesauribile capacità di generare nuove forme.
L’Eredità Istituzionale e Sociale: Il Kodokan e il Progetto Nazionale
Il colpo di genio più duraturo di Jigoro Kano, l’atto che ha garantito la sopravvivenza e l’integrità della sua creazione ben oltre la sua vita, è stata la fondazione del Kodokan. Egli non si limitò a creare una scuola (ryu), come avevano fatto innumerevoli maestri prima di lui; fondò un Istituto (kan), un’entità burocratica, pedagogica e morale progettata per essere il custode eterno della “Via”. Il Kodokan divenne l’arca dell’alleanza del Judo, l’autorità centrale incaricata di definire il canone, di standardizzare la pratica e di preservare l’essenza filosofica della disciplina contro le inevitabili derive del tempo e della popolarità. Questa struttura istituzionale fu la sua polizza di assicurazione sul futuro. Ancora oggi, il Kodokan di Tokyo è considerato la “Mecca” del Judo, un centro di pellegrinaggio per praticanti di tutto il mondo, ma il suo ruolo va ben oltre il simbolismo. Esso rimane l’autorità ultima sulla codificazione dei kata, le forme che costituiscono l’enciclopedia dei principi del Judo, e mantiene il potere esclusivo di ratificare i gradi più alti (dan), garantendo uno standard globale di eccellenza che non sia soggetto alle fluttuazioni delle politiche sportive nazionali. Questa eredità istituzionale ha dato al Judo una stabilità e una coerenza che poche altre arti marziali possiedono.
Strettamente connessa a questa è l’eredità sociale in Giappone. Il successo del Kodokan nel Torneo della Polizia Metropolitana non fu solo una vittoria sportiva, ma l’inizio di un’integrazione capillare del Judo nel tessuto della nazione. Kano lavorò instancabilmente perché la sua disciplina venisse adottata non come un semplice metodo di combattimento, ma come un pilastro del progetto educativo Meiji. La sua introduzione nel sistema scolastico, nelle forze di polizia e nelle accademie militari fu il compimento del suo sogno di fare del Judo uno strumento per formare il carattere dei giovani giapponesi. Il Judo divenne sinonimo di budo moderno, un’attività che incarnava i valori tradizionali di disciplina, rispetto e perseveranza, ma in una forma razionale, sicura e adatta ai tempi nuovi. Questa profonda integrazione ha reso il Judo parte dell’identità culturale giapponese del XX secolo, un’eredità che, sebbene oggi debba confrontarsi con la popolarità di altri sport, rimane profondamente radicata.
Tuttavia, il successo più spettacolare dell’eredità di Kano, e allo stesso tempo il suo aspetto più controverso, è l’eredità olimpica. Sebbene Kano non abbia vissuto abbastanza per vederlo, l’inclusione del Judo nei Giochi Olimpici a partire da Tokyo 1964 fu il coronamento del suo lavoro diplomatico. Questa consacrazione ha garantito al Judo una visibilità e una diffusione planetarie, trasformandolo in uno degli sport da combattimento più praticati al mondo. Ha portato finanziamenti, ricerca scientifica e un livello di professionalità impensabile ai suoi tempi. Ma questa medaglia ha un rovescio. La “sportivizzazione” del Judo ha inevitabilmente comportato una serie di compromessi. Le regole della competizione, create per essere telegeniche e facilmente comprensibili, hanno progressivamente ristretto l’immenso arsenale tecnico del Judo. Tecniche considerate essenziali per la difesa personale ma meno spettacolari o più difficili da arbitrare sono state marginalizzate o addirittura bandite. L’enfasi sulla vittoria a tutti i costi ha in molti contesti messo in ombra l’obiettivo originario dello sviluppo personale e del mutuo benessere. Si è creata una tensione, a volte un vero e proprio scisma, tra il “Judo sportivo” e il “Judo del Kodokan” o “Judo come budo“. Kano stesso era consapevole di questo rischio. Auspicava un equilibrio, ma è lecito chiedersi cosa penserebbe oggi vedendo una disciplina concepita come un percorso di vita spesso ridotta a una frenetica caccia al punteggio della durata di quattro minuti. L’eredità olimpica è quindi il trionfo più visibile di Kano, ma anche la sua sfida più complessa, un dialogo continuo e irrisolto tra i suoi ideali e le esigenze del mondo moderno.
Gli Eredi Diretti: I Custodi e gli Innovatori della Fiamma
L’eredità più viva di un maestro risiede negli allievi che forma. Kano, nel corso della sua lunga vita, istruì migliaia di persone, ma tra queste emersero alcune figure eccezionali che possono essere considerate i suoi veri eredi, coloro che ricevettero la fiamma direttamente dalle sue mani e la portarono nel mondo. Essi non furono cloni del maestro, ma personalità potenti che interpretarono e svilupparono il suo insegnamento in modi diversi, rappresentando le molteplici anime del Judo stesso.
Kyuzo Mifune (1883-1965): L’Erede Tecnico, l’Incarnazione del Principio
Se si dovesse scegliere un uomo che ha incarnato la perfezione tecnica del Judo di Kano, questi sarebbe senza dubbio Kyuzo Mifune. Soprannominato “il Dio del Judo” (Judo no Kami-sama), Mifune era la prova vivente che i principi di Seiryoku Zen’yo e Ju non erano teorie astratte, ma leggi fisiche capaci di produrre risultati quasi miracolosi. Di statura molto piccola e leggero di costituzione, Mifune divenne una leggenda per la sua capacità di proiettare avversari enormemente più grandi e pesanti di lui con una facilità e un’eleganza che lasciavano sbigottiti. Non usava la forza; sembrava danzare sul tatami, fondendosi con il movimento dei suoi partner, percependo il minimo squilibrio e applicando le sue tecniche con un tempismo e una precisione perfetti. Le sue proiezioni, come il celebre uki-otoshi (caduta fluttuante) o le sue variazioni del sumi-otoshi (caduta nell’angolo), apparivano prive di sforzo, quasi come se i suoi avversari inciampassero da soli.
Mifune fu uno dei più longevi allievi diretti di Kano e dedicò l’intera sua esistenza all’insegnamento presso il Kodokan. Dopo la morte del fondatore, divenne l’autorità tecnica più rispettata al mondo. Il suo libro, “The Canon of Judo”, è un capolavoro di analisi tecnica, e i filmati che lo ritraggono in età avanzata mentre proietta senza sforzo giovani e potenti judoka sono ancora oggi materiale di studio e fonte di ispirazione. Mifune rappresenta l’erede che ha preso il nucleo tecnico e filosofico del Judo e lo ha portato al suo massimo grado di raffinatezza. Non ha cambiato il Judo, ma ne ha mostrato il potenziale ultimo, diventando l’immagine stessa della vittoria dell’intelligenza sulla forza bruta. La sua eredità è quella della purezza tecnica, un richiamo costante a cercare l’efficienza e l’eleganza del gesto, l’anima stessa del metodo di Kano.
Hajime Isogai (1871-1947) e Hidekazu Nagaoka (1876-1952): Gli Eredi Istituzionali, i Guardiani del Tempio
Mentre Mifune rappresentava l’anima tecnica, figure come Isogai e Nagaoka rappresentano l’eredità istituzionale e la continuità del Kodokan. Entrambi furono tra i primissimi allievi di Kano e gli rimasero fedeli per tutta la vita, raggiungendo, insieme a Mifune e pochi altri, il grado supremo di decimo dan. Il loro ruolo fu meno spettacolare di quello di un tecnico come Mifune o di un pioniere come Maeda, ma non meno fondamentale. Furono i “guardiani del tempio”, gli uomini che, dopo la morte di Kano nel 1938, presero in mano le redini del Kodokan e ne assicurarono la stabilità in un periodo turbolento, segnato dalla guerra e dalla successiva occupazione americana (durante la quale la pratica delle arti marziali fu inizialmente vietata).
Isogai, in particolare, ebbe un ruolo cruciale nella diffusione del Judo nella regione del Kansai, mentre Nagaoka fu una presenza costante e autorevole al Kodokan di Tokyo. La loro eredità è quella della lealtà, della disciplina e della preservazione. Assicurarono che il sistema di graduazione, i metodi di insegnamento e l’integrità filosofica del Judo di Kano non venissero compromessi. Furono i garanti della tradizione, i pilastri su cui l’istituzione potè poggiare per superare la crisi della scomparsa del suo fondatore. Se oggi il Kodokan esiste ancora come autorità centrale, è in gran parte merito della dedizione silenziosa e incrollabile di questi eredi istituzionali, che misero il bene dell’organizzazione al di sopra di ogni ambizione personale.
Gli Eredi della Diaspora: La Fiammata Inattesa del Brazilian Jiu-Jitsu
Forse l’aspetto più affascinante e complesso dell’eredità di Kano è quello che si è sviluppato al di fuori del suo diretto controllo, attraverso gli allievi che portarono il Judo nel mondo. Tra questi, nessuno ha avuto un impatto più dirompente e inatteso di Mitsuyo Maeda (1878-1941), l’uomo la cui eredità avrebbe dato vita a una delle arti marziali più efficaci e influenti del pianeta: il Brazilian Jiu-Jitsu (BJJ).
Maeda fu uno dei più forti judoka della prima generazione del Kodokan, un esperto soprattutto nella lotta a terra (ne-waza). Kano, desideroso di dimostrare la superiorità del suo metodo, inviò alcuni dei suoi migliori allievi all’estero. Maeda fu uno di questi “missionari”. Viaggiò per il mondo, combattendo e vincendo centinaia di incontri contro pugili, lottatori e praticanti di ogni stile, in sfide “vale tudo” (tutto è permesso) che ne temprarono lo stile, rendendolo estremamente pragmatico e focalizzato sull’efficacia reale. La sua filosofia si allontanò in parte da quella più educativa e sportiva che si stava consolidando al Kodokan, per tornare a un’enfasi sulla sottomissione a ogni costo, tipica del jujutsu più antico.
Nel 1914, Maeda si stabilì in Brasile, dove divenne amico e partner d’affari di Gastão Gracie. Per sdebitarsi, accettò di insegnare la sua arte al figlio di Gastão, il giovane Carlos Gracie. Carlos, a sua volta, insegnò ai suoi fratelli, in particolare al più piccolo e gracile di loro, Hélio. La famiglia Gracie non si limitò ad apprendere passivamente. Prese il Judo/Jujutsu di Maeda e lo sottopose a un processo di ingegneria inversa, adattandolo e raffinandolo ossessivamente per le esigenze di una persona più piccola e debole che dovesse affrontare un avversario più grande in un combattimento reale, senza regole. L’enfasi fu posta quasi esclusivamente sulla lotta a terra, sulle posizioni di controllo, sulle leve articolari e sugli strangolamenti, portando la scienza del ne-waza a un livello di sofisticazione mai visto prima.
Nacque così il Brazilian Jiu-Jitsu. Per decenni rimase un’arte quasi sconosciuta al di fuori del Brasile, ma la sua esplosione a livello globale negli anni ’90, con le vittorie schiaccianti di Royce Gracie nei primi tornei dell’Ultimate Fighting Championship (UFC), cambiò per sempre il mondo del combattimento. Il BJJ si rivelò l’anello mancante per molti stili, la risposta definitiva alla domanda: “Cosa succede quando il combattimento finisce a terra?”. Oggi, è una componente indispensabile nell’allenamento di qualsiasi combattente di Arti Marziali Miste (MMA).
L’eredità di Maeda e del BJJ è un affascinante paradosso. Da un lato, rappresenta una deviazione significativa dal percorso tracciato da Kano. Il BJJ, almeno nella sua forma originaria, abbandona in gran parte gli scopi educativi e lo sviluppo del carattere per concentrarsi su un unico obiettivo: l’efficacia nella sottomissione. La filosofia di Jita Kyoei è meno centrale rispetto alla necessità di prevalere in un confronto uno contro uno. Dall’altro lato, però, il BJJ è forse l’espressione più pura del principio di Seiryoku Zen’yo e della filosofia del Ju applicata al combattimento reale. È l’arte di usare la leva e la tecnica per sconfiggere la forza bruta, un concetto che è puro DNA kanoiano. L’avventura di Maeda dimostra la potenza virale dell’idea di Kano: anche quando viene trapiantata in un terreno diverso e si ibrida con altre culture, la sua logica interna è così potente da generare sistemi di un’efficacia formidabile. Il BJJ non è Judo, ma è innegabilmente un nipote, forse ribelle ma geniale, di Jigoro Kano.
L’Eredità Invisibile: Il Paradigma del Budo Moderno
L’influenza più profonda di Kano, e forse la più difficile da misurare, non risiede solo nel Judo o nei suoi derivati, ma nell’aver creato un nuovo paradigma per le arti marziali. La sua distinzione fondamentale tra jutsu e Dō non fu solo una scelta terminologica, ma una rivoluzione concettuale che influenzò profondamente la traiettoria di altre discipline. Dopo Kano, divenne possibile pensare a un’arte marziale non solo come a un sistema di combattimento, ma come a un percorso di auto-perfezionamento, una via per la coltivazione della mente e dello spirito.
L’esempio più lampante di questa eredità invisibile è l’Aikido, fondato da Morihei Ueshiba (1883-1969). Sebbene l’Aikido derivi tecnicamente dal Daito-ryu Aiki-jujutsu, una tradizione diversa da quelle studiate da Kano, la sua formulazione filosofica è impensabile senza il precedente del Judo. Ueshiba, come Kano, trasformò un’arte di combattimento in un Dō, una “Via dell’Armonia con l’Energia Vitale”. L’enfasi dell’Aikido sulla risoluzione non violenta dei conflitti, sulla fusione con il movimento dell’aggressore e sullo sviluppo spirituale del praticante riecheggia, portandole a un livello ancora più metafisico, le idee di Ju e di Jita Kyoei. Ueshiba e Kano si conobbero e si rispettarono profondamente. Si narra che dopo aver assistito a una dimostrazione di Ueshiba, un anziano Kano abbia affermato: “Questo è il mio Budo ideale”. Riconosceva nell’Aikido un’altra espressione di quella stessa ricerca di un’arte marziale che andasse oltre la violenza per diventare uno strumento di pace e di unione.
Anche il Karate moderno, nella sua transizione da Okinawa al Giappone continentale operata da maestri come Gichin Funakoshi, fu profondamente influenzato dal modello di Kano. Funakoshi adottò il sistema di graduazione kyu/dan e il judogi, ma soprattutto, seguì l’esempio di Kano nel presentare il Karate non solo come un’efficace tecnica di autodifesa, ma come un Karate-dō, una “Via della Mano Vuota” finalizzata alla formazione del carattere.
In conclusione, l’eredità di Jigoro Kano è un arazzo di una ricchezza e di una complessità straordinarie. È un’eredità di istituzioni solide, di principi tecnici rivoluzionari e di una filosofia profonda. È un’eredità portata avanti da eredi fedeli che ne hanno custodito la purezza, e da eredi ribelli che, partendo dai suoi principi, hanno creato mondi nuovi e inaspettati. È un’eredità visibile nella popolarità globale del Judo olimpico e invisibile nel DNA di quasi tutte le arti marziali moderne che si definiscono come “Vie”. Forse, il suo lascito ultimo e più potente è un’idea semplice ma trasformativa: che il confronto fisico, se affrontato con intelligenza, disciplina e rispetto, può diventare uno degli strumenti più efficaci che l’essere umano abbia a disposizione, non per imparare a sconfiggere gli altri, ma per imparare a comprendere sé stesso e a costruire, insieme agli altri, un mondo più prospero e pacifico.
Il Kodokan Oggi: Il Cuore Pulsante del Judo
Nel cuore pulsante e iper-moderno di Tokyo, nel tranquillo quartiere di Bunkyō, sorge un edificio che a prima vista potrebbe sembrare un moderno complesso di uffici o un’università. Eppure, varcarne la soglia significa entrare in una dimensione diversa, un luogo dove il tempo sembra scorrere a un ritmo differente, carico del peso della storia e della vitalità di una pratica quotidiana. Questo è il Kodokan, l’Istituto per lo Studio della Via fondato da Jigoro Kano. Oggi, a quasi un secolo e mezzo dalla sua umile nascita in una sala di dodici tatami, il Kodokan non è un museo polveroso né un semplice monumento alla memoria del suo fondatore. È un organismo complesso e vibrante, un ecosistema che svolge una molteplicità di ruoli cruciali e interconnessi, agendo simultaneamente come tempio, laboratorio, università, archivio e parlamento globale del Judo. Comprendere il Kodokan oggi significa analizzare queste sue diverse anime, esplorare i suoi corridoi e le sue palestre, e decifrare come, in un mondo radicalmente cambiato, esso riesca ancora a essere il custode inflessibile della tradizione e, allo stesso tempo, il cuore pulsante che pompa la vita in una disciplina praticata da milioni di persone in ogni angolo del pianeta. La sua esistenza e la sua operatività sono la testimonianza più eloquente della lungimiranza di Kano, che non creò solo un’arte, ma l’istituzione immortale destinata a proteggerla.
Il Tempio Fisico: Un Pellegrinaggio al Cuore del Judo
L’attuale edificio del Kodokan, inaugurato nel 1958 e successivamente ampliato, è una struttura imponente di otto piani che incarna fisicamente la statura globale raggiunta dal Judo. Il suo design è funzionalista, privo di fronzoli, quasi a voler riflettere la filosofia pragmatica ed efficiente del suo fondatore. Ma l’austerità architettonica è ingannevole, poiché ogni spazio al suo interno è saturo di un’energia e di un significato unici. Per un judoka, visitare il Kodokan è un’esperienza che trascende il turismo; è un pellegrinaggio, un ritorno alla sorgente.
All’ingresso, si è accolti da una statua di Jigoro Kano, non raffigurato in posa marziale, ma come l’educatore e il pensatore che era, un promemoria immediato dello scopo ultimo dell’istituzione. L’atmosfera è di quieta operosità. Non c’è il clamore di una palestra commerciale, ma un senso di rispetto e concentrazione che pervade ogni ambiente. I piani inferiori ospitano gli uffici amministrativi, una biblioteca di inestimabile valore, un ostello per i judoka provenienti da tutto il mondo e un museo. Salendo, si trovano i vari dojo, le palestre di pratica. Ci sono dojo più piccoli destinati ai corsi per bambini, per le donne, per i principianti o per gruppi specifici. Ma il cuore spirituale e fisico dell’edificio è il Dojo Principale, situato al settimo piano.
Entrare nel Dojo Principale è un’esperienza quasi mistica. È uno spazio vastissimo, una distesa di 420 tatami immacolati, che possono ospitare centinaia di praticanti contemporaneamente. La luce naturale filtra da ampie finestre che corrono lungo un’intera parete, illuminando lo spazio e creando un’atmosfera solenne e ariosa. Sul lato d’onore (kamiza), campeggia un grande ritratto di Jigoro Kano, il cui sguardo severo ma benevolo sembra sorvegliare ogni movimento, ogni proiezione, ogni saluto. Non c’è musica, non ci sono schermi, non ci sono distrazioni. L’unico suono è quello prodotto dalla pratica stessa: il fruscio dei judogi, il tonfo sordo delle cadute (ukemi) che viene assorbito dal pavimento appositamente progettato, le esclamazioni gutturali durante l’applicazione di una tecnica, il respiro affannoso dei praticanti. È un suono che è rimasto immutato per generazioni. Praticare randori in questa sala significa letteralmente calpestare la stessa terra ideale su cui hanno combattuto e sudato le più grandi leggende del Judo, da Kyuzo Mifune ai campioni olimpici moderni. Si avverte la presenza invisibile di questa genealogia, una pressione sottile ma potente a dare il meglio di sé, a praticare con sincerità e rispetto, non solo per il partner che si ha di fronte, ma per la storia stessa del luogo.
Il Laboratorio Vivente: L’Insegnamento Quotidiano
La funzione primaria del Kodokan oggi, come al tempo di Kano, è l’insegnamento. È un immenso laboratorio in cui il Judo viene trasmesso, studiato e perfezionato ogni singolo giorno. La sua offerta formativa è incredibilmente diversificata, a testimonianza della sua vocazione universale.
La giornata al Kodokan è scandita da un fitto programma di corsi che si rivolgono a ogni possibile categoria di praticanti. Ci sono le classi per i bambini, dove il Judo viene insegnato in forma ludica, ponendo l’accento sulla disciplina, sul rispetto e sull’apprendimento delle cadute in sicurezza, incarnando l’ideale di Kano del Judo come strumento pedagogico. Ci sono i corsi per principianti adulti, che offrono un’introduzione rigorosa e metodica ai fondamenti della disciplina. Esistono sezioni specifiche per le donne, che perpetuano la visione pionieristica di Kano, uno dei primi a promuovere la pratica marziale femminile in un’epoca profondamente patriarcale.
Una delle sezioni più importanti è il Dipartimento Internazionale. Il Kodokan è una vera e propria calamita per i judoka di tutto il mondo. Centinaia di praticanti stranieri, dai semplici appassionati agli allenatori di squadre nazionali, passano periodi di studio a Tokyo per affinare la propria tecnica e immergersi nella cultura del Judo. Per loro, il Kodokan organizza corsi specifici, spesso tenuti in inglese, e offre il programma Kangeiko (allenamento invernale) e Shochugeiko (allenamento estivo), periodi di pratica intensiva che rappresentano una sfida fisica e mentale durissima, un rito di passaggio che forgia il carattere oltre che la tecnica. Vivere nell’ostello del Kodokan, svegliarsi all’alba per l’allenamento invernale nel freddo pungente del dojo, praticare per ore e poi condividere un pasto con judoka provenienti da decine di paesi diversi è un’esperienza che incarna perfettamente l’ideale di Jita Kyoei, la creazione di una comunità globale attraverso la pratica condivisa.
Al vertice del sistema formativo c’è il corso per i Kenshusei, un gruppo d’élite di giovani judoka, principalmente giapponesi, che si dedicano a tempo pieno allo studio del Judo con l’obiettivo di diventare istruttori di alto livello o campioni. La loro vita è spartana e interamente dedicata alla pratica e allo studio. Sono i depositari della tradizione tecnica più pura e rappresentano la continuità generazionale all’interno dell’istituzione. L’insegnamento al Kodokan è affidato a un corpo di maestri di altissimo profilo, spesso ottavi, noni e persino decimi dan, la cui competenza è riconosciuta a livello mondiale. L’enfasi è posta sulla correttezza formale, sulla comprensione dei principi e su un’etica del lavoro basata sulla serietà e sulla perseveranza. Il Kodokan non è un luogo per chi cerca scorciatoie; è una scuola che esige dedizione totale, ma che in cambio offre una profondità di conoscenza ineguagliabile.
L’Arca dell’Alleanza: Il Kodokan come Custode della Tradizione
In un mondo in cui il Judo è dominato dalla sua versione sportiva e olimpica, uno dei ruoli più cruciali e difficili del Kodokan oggi è quello di agire come custode inflessibile della tradizione e dell’integrità dell’arte concepita da Kano. È l’ “Arca dell’Alleanza” che preserva gli elementi fondamentali della disciplina che la pratica competitiva tende a marginalizzare o a dimenticare.
Lo strumento principale di questa conservazione è la pratica e la promozione dei Kata. I kata, le forme preordinate che rappresentano l’enciclopedia dei principi del Judo, sono al centro della pedagogia del Kodokan. Mentre in molte palestre sportive i kata sono visti come un noioso requisito per gli esami di cintura, al Kodokan sono considerati l’anima del Judo. Ogni kata esplora un aspetto diverso dell’arte: il Nage-no-Kata (forme delle proiezioni) insegna i principi di kuzushi-tsukuri-kake nella loro forma più pura; il Katame-no-Kata (forme del controllo) esplora le sottigliezze della lotta a terra; il Kime-no-Kata (forme della decisione) preserva le tecniche di autodifesa contro attacchi armati e disarmati; il Koshiki-no-Kata (forme delle cose antiche) mantiene un legame diretto con le tecniche delle scuole di jujutsu da cui il Judo ha avuto origine. La pratica del kata al Kodokan è rigorosa, quasi rituale. Ogni anno, durante la cerimonia del Kagami Biraki (la “rottura dello specchio”, che segna l’inizio del nuovo anno di pratica), le massime autorità del Kodokan eseguono dimostrazioni di kata di una perfezione sbalorditiva, riaffermando pubblicamente il loro impegno a preservare questa eredità. Insistendo sull’importanza dei kata, il Kodokan combatte attivamente contro la riduzione del Judo a un semplice insieme di tecniche valide per la competizione, ricordando costantemente che il suo arsenale e i suoi principi sono molto più vasti.
Oltre ai kata, il Kodokan custodisce la memoria storica del Judo attraverso il suo Museo e la sua Biblioteca. Il museo ospita una collezione straordinaria di cimeli: i judogi originali di Kano, le sue calligrafie, fotografie storiche, i verbali delle riunioni del CIO, i trofei delle prime competizioni. Visitare il museo è come fare un viaggio nel tempo, che permette di comprendere il contesto umano e storico in cui il Judo è nato. La biblioteca è ancora più importante per gli studiosi. Contiene forse la più grande collezione al mondo di libri, manoscritti e documenti sulle arti marziali giapponesi, inclusi molti degli scritti originali di Kano. È un centro di ricerca fondamentale per chiunque voglia studiare la storia e la filosofia del budo. Attraverso queste istituzioni, il Kodokan non solo insegna il Judo, ma ne studia, ne preserva e ne diffonde la storia, assicurando che le generazioni future possano accedere direttamente alle fonti e comprendere la visione del fondatore nella sua interezza.
L’Autorità Globale: La Governance Morale e Tecnica
Sulla scena mondiale, il ruolo del Kodokan è complesso e si articola in una relazione a volte delicata con la Federazione Internazionale di Judo (IJF), l’organo di governo del Judo sportivo. Mentre l’IJF gestisce il circuito delle competizioni internazionali, le qualificazioni olimpiche e l’evoluzione delle regole di gara, il Kodokan mantiene una forma di autorità morale e tecnica suprema.
Questa autorità si manifesta in modo più evidente nel sistema dei gradi. Sebbene le federazioni nazionali possano autonomamente conferire i gradi kyu (le cinture colorate) e i primi gradi dan (cintura nera), i gradi più alti, dal sesto dan in su, richiedono la ratifica o il conferimento diretto da parte di un comitato speciale del Kodokan. Questa non è una formalità burocratica. È un sistema che garantisce uno standard globale di eccellenza. Per essere promossi a questi livelli non basta essere un grande campione; il comitato valuta il contributo complessivo del candidato alla promozione del Judo, la sua integrità morale, la sua conoscenza teorica e filosofica, e la sua abilità nei kata. Un alto grado del Kodokan è un sigillo di approvazione che trascende i successi agonistici e certifica un individuo come un vero maestro nel senso più completo del termine. Questo sistema conferisce al Kodokan un’influenza enorme, poiché i più alti gradi di tutte le federazioni nazionali aspirano a questo riconoscimento, allineandosi di fatto agli standard etici e tecnici stabiliti da Tokyo.
Il rapporto con l’IJF è di collaborazione ma anche di sana tensione. Le due organizzazioni rappresentano le due anime del Judo moderno: il budo e lo sport. Spesso collaborano su progetti di sviluppo e formazione. Tuttavia, il Kodokan agisce frequentemente come una “coscienza critica” rispetto alle decisioni dell’IJF. Quando l’IJF introduce nuove regole di gara per rendere il Judo più televisivo o più facile da arbitrare (come il divieto di afferrare le gambe o la riduzione del tempo per la lotta a terra), dal Kodokan si levano spesso voci preoccupate che tali cambiamenti possano impoverire l’arte e allontanarla dai suoi principi originari. Il Kodokan non ha il potere di bloccare queste decisioni, ma la sua opinione ha un peso morale enorme nella comunità judoistica mondiale. Rappresenta la continuità, un richiamo costante alle radici, impedendo che il Judo sportivo si distacchi completamente dalla sua matrice marziale e filosofica. È un dialogo complesso, un equilibrio dinamico tra evoluzione e conservazione, che definisce in gran parte lo stato del Judo contemporaneo.
Il Cuore Filosofico: Mantenere Viva la Visione di Kano
Al di là di ogni funzione tecnica, istituzionale o amministrativa, il ruolo più profondo del Kodokan oggi è quello di mantenere vivo e pulsante il cuore filosofico del Judo: i principi di Seiryoku Zen’yo e Jita Kyoei. In un mondo che premia l’efficacia immediata e il successo individuale, come si insegna un ideale di mutua prosperità? Il Kodokan lo fa non tanto attraverso lezioni teoriche, quanto attraverso l’immersione in una cultura e in una pratica quotidiana che incarnano questi principi.
L’enfasi maniacale sul Reigi (礼), l’etichetta, è uno degli strumenti pedagogici più potenti. Il saluto all’ingresso del dojo, il saluto al partner prima e dopo ogni esercizio, il modo corretto di sedersi, di camminare, di piegare il judogi: questi non sono vuoti formalismi. Sono una pratica costante di rispetto, umiltà e gratitudine. Ogni saluto è un riconoscimento del valore del luogo, della tradizione e del partner che ci permette di progredire. Questa disciplina esteriore è progettata per coltivare un’attitudine interiore, per plasmare un carattere che riconosca la propria interdipendenza con gli altri.
Il Kodokan promuove attivamente la sfida dello sport come un’opportunità per mettere alla prova questi principi. Invece di demonizzare la competizione, la vede come un severo banco di prova. È facile parlare di rispetto e controllo quando le cose vanno bene; è molto più difficile mantenere la calma dopo una sconfitta, congratularsi sinceramente con chi ci ha battuto, analizzare i propri errori con onestà e tornare ad allenarsi con umiltà. Il Kodokan insegna a vivere la competizione non come una guerra, ma come un’opportunità di crescita condivisa. La vittoria non è tutto; il modo in cui si combatte, si vince e si perde è ciò che definisce un vero judoka.
In definitiva, il Kodokan oggi è un’istituzione miracolosamente fedele alla visione del suo fondatore. È un luogo che riesce a essere, contemporaneamente, un’università d’élite per la tecnica, un archivio storico di importanza mondiale, un’autorità morale globale e, soprattutto, una scuola di vita per migliaia di persone. Continua a navigare le complesse acque del mondo moderno, difendendo con tenacia l’idea che un’arte marziale possa e debba essere molto più di un semplice sport. È il cuore pulsante che assicura che il sangue che scorre nelle vene del Judo mondiale sia ancora, e sempre, arricchito dai principi immortali di efficienza massima e mutua prosperità. Finché il Kodokan esisterà nella sua forma attuale, la grande “Via” tracciata da Jigoro Kano non rischierà mai di perdersi.
Fonti e Riferimenti Bibliografici
Avvicinarsi alla figura di Jigoro Kano attraverso le fonti scritte è un’impresa che assomiglia meno alla lettura di una biografia e più a un’indagine archeologica. Il personaggio storico è sepolto sotto strati di mito, di agiografia istituzionale, di aneddoti reverenziali e di interpretazioni postume, ogni strato depositato da un’epoca diversa e con uno scopo preciso. Ricostruire un ritratto autentico e sfaccettato del fondatore del Judo richiede quindi un’attenta opera di scavo, la capacità di riconoscere la natura di ogni reperto, di datarli, di comprenderne il contesto e di interrogarli criticamente. Questo capitolo non si propone come una semplice lista di libri da consultare, un arido elenco bibliografico, ma come una guida storiografica, un percorso ragionato attraverso le diverse tipologie di fonti che ci permettono di conoscere Kano. Il nostro scopo è analizzare la natura stessa di queste fonti, mettendone in luce i punti di forza, i limiti intrinseci, i pregiudizi e le prospettive. Solo comprendendo come la storia di Kano è stata scritta, tramandata e interpretata, possiamo sperare di avvicinarci alla complessa verità dell’uomo, del pensatore, dell’educatore e del riformatore. Esploreremo quattro categorie principali di fonti: gli scritti autografi dello stesso Kano, la fonte primaria per eccellenza; le narrazioni “ufficiali” prodotte dal Kodokan e le testimonianze dei suoi discepoli diretti; le biografie accademiche moderne, che applicano un metodo critico e scientifico; e infine, le fonti contestuali, indispensabili per collocare Kano nel suo tumultuoso e affascinante periodo storico. Ciascuna di queste categorie offre una lente diversa attraverso cui osservare il gigante, e solo sovrapponendole possiamo iniziare a percepirne la reale, tridimensionale statura.
I. La Fonte Primaria: Dialogo Diretto con la Mente di Kano attraverso i Suoi Scritti
Al vertice di ogni indagine storica si trovano le fonti primarie, i documenti prodotti direttamente dal soggetto studiato. Nel caso di Jigoro Kano, siamo fortunati a possedere un corpus di scritti vasto e variegato, che ci offre una finestra senza pari sulla sua mente. Tuttavia, anche queste fonti dirette non sono uno specchio trasparente della sua anima; sono testi scritti con uno scopo, indirizzati a un pubblico specifico e costruiti per veicolare un messaggio preciso. Analizzarli criticamente significa leggerli non solo per ciò che dicono, ma anche per ciò che non dicono, per il modo in cui lo dicono e per le ragioni per cui sono stati scritti.
I Manuali Tecnici: La Scienza dietro il Movimento
Opere come il Judo Kyohon (Manuale di Judo) e, soprattutto, il postumo ma definitivo “Kodokan Judo”, rappresentano il tentativo di Kano di codificare e razionalizzare la sua disciplina. Questi testi sono fonti di valore inestimabile per diverse ragioni. In primo luogo, ci mostrano la sua mente scientifica e pedagogica all’opera. A differenza dei densho (rotoli della tradizione) delle antiche scuole di jujutsu, che erano spesso criptici e allusivi, i manuali di Kano sono modelli di chiarezza e sistematizzazione. La creazione del Go Kyo no Waza, la classificazione delle tecniche di proiezione in cinque serie di difficoltà crescente, è un atto di ingegneria didattica. Non è un semplice elenco, ma un percorso di apprendimento progressivo, che guida lo studente dal semplice al complesso. L’analisi di ogni tecnica attraverso la triade Kuzushi-Tsukuri-Kake è un’altra innovazione radicale. Scomponendo il gesto nelle sue fasi logiche — squilibrio, preparazione, esecuzione — Kano trasforma un’arte intuitiva in una scienza applicata, comprensibile e insegnabile. Questi manuali, quindi, non ci dicono solo come si esegue una tecnica, ma ci rivelano il processo mentale di Kano, il suo desiderio di demistificare la conoscenza e di renderla accessibile attraverso la logica e la ragione. Il loro limite, ovviamente, è che presentano una versione idealizzata e standardizzata della pratica, omettendo la caotica realtà del randori e le innumerevoli variazioni personali che caratterizzano il combattimento.
Gli Articoli e i Saggi: La Costruzione di una Filosofia Pubblica
Se i manuali erano destinati alla pratica, gli innumerevoli articoli che Kano scrisse per riviste come “Yuko no Katsudo” erano destinati a costruire l’edificio filosofico e sociale del Judo. Questi testi sono forse le fonti più ricche per comprendere la sua visione del mondo. Qui Kano si spoglia dei panni del tecnico per vestire quelli del filosofo, dell’educatore e del riformatore sociale. È in questi scritti che esplora in profondità i concetti di Seiryoku Zen’yo e Jita Kyoei, argomentando con grande erudizione come questi principi, appresi sul tatami, debbano essere applicati a ogni aspetto della vita. La sua abilità retorica è notevole: sa come collegare il Judo alle grandi questioni del suo tempo — la modernizzazione del Giappone, il dialogo con l’Occidente, la necessità di un’etica pubblica. Quando si leggono questi saggi, bisogna essere consapevoli del loro scopo di legittimazione. Kano sta parlando all’élite intellettuale e politica del Giappone, e il suo obiettivo è convincerla che il Judo non è una volgare rissa, ma un sofisticato sistema pedagogico, una “Via” degna di una nazione moderna e civile. Questo intento propagandistico, nel senso nobile del termine, modella il suo linguaggio e la sua argomentazione. Egli presenta il Judo come la soluzione a molti dei problemi sociali del suo tempo, un’affermazione che, pur essendo sincera, va letta con un certo spirito critico. Questi testi ci rivelano il Kano “pubblico”, l’abile costruttore di un’ideologia.
Le Antologie Moderne: Accesso e Interpretazione
Per il lettore contemporaneo, specialmente quello non giapponese, l’accesso a questi scritti sparsi è stato reso possibile da eccellenti raccolte antologiche, la più famosa delle quali è “Mind Over Muscle: Writings from the Founder of Judo”. Queste opere sono strumenti preziosi, che traducono e organizzano tematicamente il pensiero di Kano. Tuttavia, è importante ricordare che ogni antologia è un atto di interpretazione. Il curatore sceglie quali testi includere e quali escludere, quali passaggi enfatizzare e come organizzarli. Questa selezione, per quanto onesta, crea inevitabilmente una particolare lettura del pensiero di Kano. Il lettore critico dovrebbe sempre chiedersi: quali altri scritti esistono? Quali aspetti potrebbero essere stati messi in ombra da questa selezione? Inoltre, il processo di traduzione è sempre una sfida. Concetti complessi come Seiryoku Zen’yo o persino Ju non hanno equivalenti perfetti in altre lingue, e ogni traduzione è una negoziazione tra fedeltà letterale e comprensibilità, un processo che può alterare sottilmente le sfumature del pensiero originale.
II. La Voce del Tempio: Storiografia Ufficiale e Memorie dei Discepoli
La seconda grande categoria di fonti è quella prodotta dall’entourage di Kano: le pubblicazioni ufficiali del Kodokan e le memorie, biografie e manuali scritti dai suoi allievi diretti. Queste fonti sono un tesoro di informazioni insostituibili, ma sono anche quelle che richiedono il massimo grado di cautela critica, poiché sono intrinsecamente caratterizzate da un intento agiografico, dalla volontà di celebrare il fondatore e di consolidare la leggenda.
Le Cronache del Kodokan: La Costruzione del Mito Fondativo
Il Kodokan, fin dalla sua nascita, ha avuto una chiara coscienza della propria missione storica e ha prodotto una narrazione ufficiale della sua origine e del suo sviluppo. Questa narrazione, presente in innumerevoli pubblicazioni, si concentra su alcuni episodi chiave che hanno assunto un valore mitico: la modestia della prima sala di dodici tatami, la figura quasi sovrannaturale di Shiro Saigo, la vittoria schiacciante sul jujutsu tradizionale nel Torneo della Polizia. Questi racconti, pur basandosi su un nucleo di verità storica, sono stati quasi certamente abbelliti e drammatizzati nel tempo per servire a uno scopo preciso: creare un mito fondativo potente e ispiratore. Essi presentano la nascita del Judo come un evento predestinato, la vittoria del progresso sulla tradizione, dell’intelligenza sulla forza. Per lo storico, queste fonti sono preziose non tanto come resoconti fattuali e oggettivi, ma come documenti che rivelano l’ideologia e l’immagine pubblica che il Kodokan voleva proiettare. Ci dicono molto su come l’istituzione vedeva sé stessa e su come voleva essere vista dal mondo.
Le Testimonianze dei Discepoli: Tra Venerazione e Intuizione
I libri scritti da allievi diretti di Kano, come Kyuzo Mifune (“The Canon of Judo”) o Gunji Koizumi (“My Study of Judo”), offrono una prospettiva unica e intima. La loro forza risiede negli aneddoti personali, nei ricordi di prima mano delle lezioni del maestro, nelle descrizioni del suo carattere, delle sue abitudini, del suo modo di insegnare. Questi dettagli apparentemente minori sono spesso illuminanti e ci permettono di intravedere l’uomo dietro la figura pubblica. Koizumi, scrivendo dal suo punto di vista di “missionario” del Judo in Inghilterra, ci dà uno spaccato affascinante delle sfide legate all’esportazione di un’arte così profondamente giapponese. Mifune, il genio tecnico, ci offre nei suoi scritti un’interpretazione quasi artistica dei principi di Kano, portandoli alla loro massima espressione.
Tuttavia, il limite intrinseco di queste fonti è la venerazione. Per questi uomini, Kano non era un semplice insegnante; era una figura paterna, un maestro quasi divino, il fondatore di una “Via” che aveva dato un senso alla loro intera esistenza. Le loro testimonianze sono quindi inevitabilmente agiografiche. È estremamente improbabile trovare in esse una critica, un dubbio o il racconto di un fallimento del maestro. Ogni sua azione è presentata come saggia e lungimirante. Lo storico deve leggere questi testi con la consapevolezza di trovarsi di fronte a un atto di devozione filiale. L’informazione preziosa va estratta con cura, separandola dallo strato di reverenza che la avvolge. Inoltre, queste memorie sono spesso scritte decenni dopo gli eventi, e la memoria umana è un filtro fallibile, che tende a idealizzare il passato e a organizzare i ricordi in una narrazione più coerente di quanto non fosse la realtà.
III. Lo Sguardo dello Storico: Le Biografie Critiche e la Ricerca Accademica
A partire dalla seconda metà del XX secolo, e con maggiore intensità negli ultimi decenni, è emersa una terza categoria di fonti: le biografie e gli studi accademici prodotti da storici e ricercatori che applicano un metodo critico moderno. Questi lavori rappresentano un passo fondamentale per una comprensione più equilibrata e contestualizzata di Kano, poiché non partono da un presupposto di venerazione, ma da un desiderio di indagine scientifica.
Le Biografie Moderne: Contestualizzare il Gigante
Opere come “The Father of Judo: A Biography of Jigoro Kano” di Brian N. Watson o “The Way of Judo: A Portrait of Jigoro Kano and His Students” di John Stevens sono esempi eccellenti di questo approccio. Il loro metodo è radicalmente diverso da quello degli agiografi. Essi non si limitano a riportare la narrazione ufficiale del Kodokan, ma la mettono alla prova, confrontandola con un’ampia gamma di altre fonti: documenti governativi, articoli di giornale dell’epoca, diari di diplomatici stranieri, archivi universitari. Il loro obiettivo primario è contestualizzare Kano. Invece di presentarlo come un genio isolato, lo collocano saldamente all’interno delle correnti politiche, sociali e intellettuali del Giappone Meiji.
Grazie a questo approccio, emergono nuove e più complesse prospettive. Watson, ad esempio, dedica un’attenzione straordinaria alla carriera di Kano come educatore e diplomatico, dimostrando in modo convincente che queste attività non erano secondarie, ma centrali nella sua vita, e che la creazione del Judo era parte di un progetto pedagogico e sociale molto più ampio. Stevens, d’altra parte, arricchisce il ritratto di Kano esplorando le vite e i caratteri dei suoi studenti principali, mostrando come il Judo sia stato fin da subito un fenomeno polifonico, plasmato da molte personalità diverse. Questi biografi moderni non cercano di sminuire la grandezza di Kano, ma di renderla più umana e comprensibile. Affrontano anche i temi più spinosi, come il rapporto di Kano con il crescente nazionalismo giapponese degli anni ’30, offrendo interpretazioni più sfumate rispetto alle narrazioni semplicistiche. Il loro principale limite, soprattutto per gli autori occidentali, è talvolta una minore familiarità con le fonti primarie in lingua giapponese, sebbene i migliori tra loro collaborino con ricercatori giapponesi per superare questo ostacolo.
La Ricerca Specialistica: Scavare nei Dettagli
Oltre alle biografie complete, esiste una crescente mole di ricerca accademica su aspetti specifici della vita e dell’opera di Kano. Articoli su riviste di studi sportivi, di storia giapponese o di pedagogia analizzano in dettaglio, ad esempio, l’influenza del pensiero di Herbert Spencer sulla filosofia di Kano, o il ruolo esatto del Kodokan nell’addestramento della polizia, o le dinamiche interne al Comitato Olimpico Internazionale durante la sua presidenza. Questi studi specialistici sono fondamentali perché, concentrandosi su un singolo aspetto, possono raggiungere un livello di profondità e di precisione documentale che una biografia generale non può permettersi. Essi forniscono i singoli tasselli di alta qualità con cui i biografi possono poi costruire mosaici più ampi e accurati. La sfida per il ricercatore è quella di rintracciare questi studi, spesso pubblicati in sedi accademiche di difficile accesso, e di integrarli nella propria comprensione.
IV. La Scena del Dramma: Le Fonti Contestuali per Comprendere un’Epoca
Nessuna figura storica può essere compresa appieno se isolata dal suo tempo. Per capire veramente Jigoro Kano, è indispensabile immergersi nel mondo in cui visse: il Giappone a cavallo tra il XIX e il XX secolo, un’epoca di cambiamenti vertiginosi e di profonde contraddizioni. Le fonti contestuali sono quindi una quarta categoria essenziale per qualunque studio serio.
Storie del Giappone Meiji e del Budo
Leggere storie generali del periodo Meiji è un prerequisito fondamentale. Opere che descrivono il crollo dello shogunato, la restaurazione del potere imperiale, le riforme politiche, l’industrializzazione forzata e le tensioni sociali forniscono la scenografia indispensabile per comprendere le sfide e le opportunità che Kano si trovò di fronte. Allo stesso modo, studi sulla storia del budo e sulla fine della classe samurai, come quelli di G. Cameron Hurst III o Karl Friday, sono cruciali. Ci aiutano a capire perché il jujutsu fosse in declino, quale fosse lo status sociale dei maestri e perché il tentativo di Kano di creare un “budo moderno” fosse così innovativo e, inizialmente, così controverso.
Filosofia e Pedagogia Comparata
Per afferrare la genesi di concetti come Seiryoku Zen’yo, non basta leggere ciò che Kano scrisse al riguardo. È estremamente illuminante leggere direttamente gli autori occidentali che lo influenzarono. Immergersi negli scritti di Herbert Spencer sul darwinismo sociale o di John Stuart Mill sull’utilitarismo permette di capire quali idee circolavano nell’Università di Tokyo in quegli anni e come Kano le abbia assorbite, filtrate e rielaborate in una sintesi originale, combinandole con la sua profonda formazione neoconfuciana. Questo tipo di lettura comparata ci impedisce di vedere la filosofia di Kano come una creazione ex nihilo e ce la rivela per quello che è: un dialogo brillante e creativo tra Oriente e Occidente.
In conclusione, la bibliografia su Jigoro Kano è essa stessa una storia affascinante. È la storia di come un uomo e un’idea siano stati raccontati, celebrati, analizzati e infine compresi in modi sempre più complessi e sofisticati nel corso di oltre un secolo. Per il ricercatore, il viaggio attraverso queste fonti non è un semplice lavoro preparatorio, ma parte integrante dell’avventura intellettuale. Imparare a navigare tra gli scritti del maestro, le memorie dei discepoli, le analisi degli storici e le cronache di un’epoca significa imparare a pensare criticamente, a pesare le prove, a riconoscere le prospettive e, infine, a costruire la propria, personale e motivata interpretazione. È un processo che richiede pazienza, rigore e umiltà, le stesse virtù che Jigoro Kano cercò di instillare nei suoi allievi sul tatami del Kodokan. La verità storica, come la maestria nel Judo, non è mai un possesso definitivo, ma una ricerca continua, una “Via” che si percorre senza mai giungere a una fine.
Disclaimer
Giunti al termine di un percorso che ha tentato di esplorare la vita, l’opera e il pensiero di una figura monumentale come Jigoro Kano, è imperativo compiere un ultimo passo. Questo capitolo finale, intitolato “Disclaimer”, non deve essere interpretato nel suo senso più comune e restrittivo, ovvero come una mera clausola legale volta a esimere l’autore da responsabilità. Al contrario, esso vuole essere una riflessione necessaria e un atto di onestà intellettuale, un meta-capitolo che invita il lettore a considerare criticamente l’opera che ha appena letto, a comprenderne i limiti intrinseci e a utilizzarla non come un punto d’arrivo, ma come un punto di partenza. In un’opera dedicata a un uomo che ha fondato la sua intera filosofia sul pensiero critico, sulla ricerca incessante e sulla distinzione tra conoscenza superficiale e comprensione profonda, sarebbe un tradimento offrire questo testo come un vangelo definitivo. Questo disclaimer è quindi l’ultimo atto pedagogico di questo volume: un invito a dubitare, a verificare e, soprattutto, a intraprendere la propria personale ricerca della “Via”, qualunque essa sia. È un tentativo di fornire al lettore non solo informazioni, ma anche gli strumenti per valutarne la portata, i confini e la reale utilità, distinguendo nettamente tra la rappresentazione di una conoscenza e la conoscenza stessa.
I Confini Invalicabili tra la Parola Scritta e l’Esperienza Incarnata
Il primo e più importante avvertimento riguarda la natura stessa di questo testo in relazione alla pratica del Judo. Questa opera è una raccolta di parole, di concetti, di narrazioni storiche. Non è, e non potrà mai essere, un sostituto dell’esperienza diretta sul tatami. È fondamentale comprendere che esiste un abisso incolmabile tra la comprensione intellettuale di un principio e la sua incarnazione fisica. Si può leggere e rileggere la descrizione del kuzushi, lo squilibrio, si può analizzarne la meccanica e comprenderne la logica con assoluta chiarezza, ma questa conoscenza concettuale non avrà quasi alcun valore nel momento in cui ci si troverà di fronte a un partner che oppone resistenza. L’intelligenza del corpo, quella capacità di sentire il centro di gravità dell’altro, di percepire l’istante esatto in cui cedere o tirare, di adattarsi fluidamente a un caos in continuo mutamento, è un tipo di sapere che non può essere trasmesso attraverso la pagina stampata. Si acquisisce solo attraverso migliaia di ore di pratica, attraverso il sudore, la frustrazione, l’errore e la ripetizione incessante, sotto la guida attenta di un insegnante qualificato.
Pertanto, si deve affermare con la massima chiarezza e serietà: questo testo non è un manuale di istruzioni. Nessuna delle descrizioni tecniche in esso contenute deve essere interpretata come un invito a sperimentare autonomamente le tecniche del Judo. Tentare di apprendere proiezioni, leve articolari o strangolamenti da un libro, senza la supervisione di un maestro (sensei) e la collaborazione di un partner esperto (uke) in un ambiente sicuro (dojo), non è solo pedagogicamente inutile, ma è estremamente pericoloso e può portare a infortuni gravi per sé e per gli altri. La trasmissione di un’arte marziale è un processo che avviene attraverso il contatto, l’esempio, la correzione diretta; è un dialogo tra corpi e menti che nessuna parola scritta può replicare. Questo libro può arricchire la comprensione di un praticante, può fornire un contesto storico e filosofico che ne approfondisce l’esperienza, ma non può in alcun modo crearla. L’invito, per chi fosse ispirato da queste pagine a conoscere il Judo, è uno solo: trovare un dojo rispettabile, indossare un judogi, salire sul tatami con umiltà e iniziare il vero apprendimento, quello che passa attraverso il corpo.
I Limiti della Rappresentazione Storica: La Costruzione di un Uomo
Il secondo livello di questo disclaimer riguarda la natura intrinseca della narrazione biografica. Questo volume ha tentato di presentare un ritratto accurato e sfaccettato di Jigoro Kano. Tuttavia, il lettore deve essere consapevole che ogni biografia, per quanto rigorosa e ben documentata, è una costruzione. Non è una fotografia oggettiva della realtà, ma un’interpretazione, una selezione e un’organizzazione di una quantità finita di dati storici allo scopo di creare una narrazione coerente e leggibile. La vita di un uomo è un flusso caotico di eventi, pensieri, contraddizioni, momenti di genialità e momenti di banalità. Una biografia, per sua natura, deve operare una selezione. L’autore sceglie quali eventi enfatizzare, quali lettere citare, quali testimonianze considerare più attendibili, quali aspetti del carattere mettere in luce. Questa selezione, anche quando compiuta con la massima onestà intellettuale, è inevitabilmente influenzata dalla prospettiva dell’autore, dalla sua cultura, dalla sua sensibilità e dalle domande che egli pone al passato.
Di conseguenza, il Jigoro Kano che emerge da queste pagine è una versione di Jigoro Kano, non la versione definitiva. È il risultato di un dialogo tra le fonti storiche disponibili e l’interpretazione di chi scrive. Si è cercato di presentare un uomo complesso, un innovatore ma anche un uomo del suo tempo, con le sue luci e le sue possibili ombre. Si è tentato di smontare alcuni degli strati più evidenti del mito agiografico che circonda la sua figura. Ma il mito è persistente, e anche il tentativo di demitizzare rischia di creare un contro-mito, quello dello storico che pretende di aver svelato la “verità” ultima. La realtà è molto più umile: si è offerta una lettura plausibile, argomentata e basata sulle fonti, ma il lettore è caldamente invitato a mantenere uno spirito critico. Altre biografie, scritte da altri autori con altre sensibilità, potrebbero enfatizzare aspetti diversi, giungere a conclusioni differenti e dipingere un ritratto con sfumature diverse. La verità storica, specialmente quando si tratta della vita interiore e delle motivazioni di un individuo, non è mai un punto fermo, ma un orizzonte verso cui tendere attraverso il confronto di molteplici prospettive.
La Responsabilità Etica della Scrittura e della Lettura
Scrivere di una figura come Kano e di una disciplina come il Judo comporta una notevole responsabilità etica. Si è cercato di onorare questa responsabilità in diversi modi. In primo luogo, sforzandosi di raggiungere il massimo grado possibile di accuratezza fattuale, verificando le informazioni su più fonti e distinguendo chiaramente, ove possibile, i fatti documentati dagli aneddoti leggendari. In secondo luogo, tentando di non tradire la complessità del pensiero di Kano. Sarebbe stato facile presentare il Judo solo come una filosofia di pace e armonia, omettendone la natura di arte marziale efficace e la sua dimensione competitiva, a volte brutale. Allo stesso modo, sarebbe stato riduttivo descriverlo solo come uno sport da combattimento, ignorandone le profonde radici etiche e pedagogiche. Si è cercato di mantenere in equilibrio queste tensioni, poiché è proprio in esse che risiede la ricchezza e la vitalità del lascito di Kano.
Tuttavia, anche il lettore ha una responsabilità. La responsabilità di non accettare passivamente le informazioni presentate, ma di interrogarle. La responsabilità di non estrapolare singole frasi o concetti dal loro contesto per giustificare le proprie idee preconcette. La responsabilità di comprendere che le parole hanno un peso e che i concetti di Kano, come “efficienza” o “mutuo benessere”, possono essere interpretati in modi molto diversi, alcuni dei quali potrebbero essere lontani dalle intenzioni originali del fondatore. Questo testo è offerto come un contributo a un dialogo, non come un’autorità indiscutibile. La sua utilità dipende in larga misura dall’approccio critico e riflessivo di chi legge.
La Provvisorietà della Conoscenza: Un’Istantanea nel Tempo
Infine, è fondamentale riconoscere che questo lavoro rappresenta un’istantanea basata sullo stato attuale della ricerca storica e delle fonti disponibili. La conoscenza non è statica. È un processo dinamico e in continua evoluzione. È possibile che in futuro nuovi documenti emergano dagli archivi, che lettere private vengano scoperte, che studi accademici basati su nuove metodologie offrano interpretazioni innovative che modifichino la nostra comprensione di certi aspetti della vita o del pensiero di Kano. Pertanto, questo testo non può e non vuole pretendere di essere la parola definitiva sull’argomento. È una sintesi delle conoscenze attuali, destinata a essere superata, corretta e arricchita da ricerche future. Il lettore è invitato a considerare queste pagine come una solida base di partenza, ma a rimanere aperto e curioso verso le nuove scoperte e le nuove prospettive che la comunità degli storici e dei ricercatori saprà offrire negli anni a venire.
In conclusione, questo disclaimer non è una ritirata, ma un’affermazione di principio. È il riconoscimento che la vera conoscenza, come insegnava lo stesso Kano, non è un possesso, ma una ricerca. È un invito a onorare l’eredità intellettuale del fondatore del Judo nel modo più autentico possibile: non accettando dogmi, ma ponendo domande; non cercando certezze assolute, ma abbracciando la complessità; non limitandosi a leggere la storia, ma partecipando attivamente al dialogo con essa. Se queste pagine avranno stimolato nel lettore il desiderio di approfondire, di verificare, di praticare con consapevolezza e di formarsi un giudizio autonomo, allora avranno raggiunto il loro scopo più alto, ben al di là della semplice trasmissione di informazioni.
A cura di F. Dore – 2025