L’arte segreta della nobiltà
Si è appurato che nel secolo XV il re di Ryùkyù, dopo aver elevato al rango di nobili gli antichi capi locali, proibisce di portare armi. Contrariamente a un’idea data per acquisita, questo divieto è perciò di molto anteriore alla dominazione dei feudatari giapponesi.
Con riserva di ulteriori ricerche, non troviamo tracce dell’esistenza di una particolare arte del combattimento nei secoli XV e XVI tra i contadini.
Se un’arte del combattimento elaborata venne trasmessa dalle ambascerie cinesi e dagli abitanti di Kume, fu la nobiltà, che costituiva una cerchia privilegiata, che potè avere, per prima, l’occasione di accedervi.
Nel corso degli anni Settanta, la pubblica presentazione della tecnica chiamata Udon-te (udori significa palazzo) ha confermato l’ipotesi di un sapere proprio della nobiltà di Ryùkyù. Questa tecnica si distingue dal karate abituale per le forme di presa e di proiezione, la cui trasmissione era limitata ai figli primogeniti delle famiglie dell’alta nobiltà. La famiglia Motobu è la sola ad aver potuto perpetuare questa tradizione fino all’inizio del secolo XX. In seguito, temendo la scomparsa di questo sapere, l’ultimo discendente, Chòyu Motobu, lo trasmise al suo discepolo Seikichi Uehara che lo insegnò nel suo dójò. Fu così che questa conoscenza uscì per la prima volta dalla famiglia Motobu. Il segreto della trasmissione è stato tuttavia mantenuto fino all’indomani della seconda guerra mondiale. Il fratello minore di Chòyu, Chòki Motobu (1870-1941), che ha lasciato una traccia importante nella storia del karate moderno, non aveva avuto conoscenza dell’arte di famiglia che praticava suo fratello primogenito. Questo fatto mostra a qual punto il segreto della trasmissione fosse rispettato.
Solleveremo ora un problema. Perché, all’arrivo dei cinesi, i gruppi dominanti di Ryukyu si interessarono alle forme di combattimento a mano nuda piuttosto che alla spada o al tiro con l’arco? Certuni avanzano l’ipotesi che essi avessero già sviluppato forme di combattimento a mano nuda e con il bastone, e avessero trovato nel contributo dei cinesi una possibilità di perfezionamento. L’opposizione, da lungo tempo stabilita a Okinawa, tra i due termini to de – l’arte cinese del combattimento – e Okinawa-te – l’arte del combattimento di Okinawa – divisa a sua volta in Shuri-te, Tomari-te e Naha-te, ci fa supporre l’esistenza di una pratica autoctona di Okinawa. Ma, per il momento, in mancanza di documenti, essa resta puramente ipotetica. Molti studiosi pensano che l’arte del combattimento di Okinawa si sia sviluppata a partire dall’arte cinese del combattimento. Di fatto, da una parte la società di Okinawa non aveva raggiunto un livello tecnico sufficiente per elaborare un’arte del combattimento nel momento in cui si stabilì un contatto regolare con la Cina e, dall’altra, nessuna delle isole vicine, la cui cultura era molto prossima, ha sviluppato un’arte del combattimento.
Le conoscenze sono ancora più ridotte per quel che concerne una eventuale tradizione contadina delle arti marziali. Sebbene esistano alcuni indizi, questi non ci permettono di risalire molto lontano nel tempo. Conosciamo così alcune danze locali di Okinawa – Ryukyù buyd – dove la gestualità è a tratti molto simile a quella di certi kata di karate.
Il karate di Tomari (Tomari-te), che è vicino a quello dello Shuri-te, veniva talvolta chiamato Inaka-te (karate dei contadini) dagli adepti di Shuri-te, perché gli adepti del Tomari-te inserivano spesso nei kata dei gesti decorativi – tendenza sgradita agli adepti dello Shuri-te, che si sforzavano di praticare la tecnica dei kata con semplicità e rigore.
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La diffusione di un’arte segreta: il Karate
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a cura di Francesco Dore
Fonte Kenji Tokitsu – Storia del Karate , La via della mano vuota – Luni Editrice